L’ideale messianico di Giovanni il Battista, espresso nella sua predicazione, era caratterizzato dall’attesa di colui che sarebbe venuto ad abbattere gli alberi sterili, a purificare il cortile, a battezzare con il fuoco (Mt 3,10-13). In una parola egli attendeva il Messia nelle vesti di un inflessibile giudice finale. Si capisce perciò il suo sconcerto e il suo dubbio di fronte a Gesù che non si comporta secondo le sue attese.
Forse qui si gioca anche un motivo personale: era convinzione diffusa che il Messia avrebbe liberato i prigionieri e il Battista stava in carcere, ma nulla lasciava intendere che Gesù si preoccupasse di lui. La risposta di Cristo è un invito ad aprire gli occhi e le orecchie: occorre interpretare e comprendere la sua attività di guarigione dei malati, la risurrezione dei morti e l’annuncio del lieto messaggio ai poveri come l’inizio di un nuovo corso.
Gesù esorta a trarne le debite conseguenze: il suo agire esprime chiaramente chi è, ma, a ben guardare, la risposta si mostra complessa: ha un carattere affermativo quando dice che, sì, è lui il Messia, ma non il giudice finale. Egli è il liberatore e l’annunciatore del lieto messaggio del Regno ai poveri. Questa è l’ora della misericordia; il giudice ci sarà alla fine. La risposta appare decisamente esaustiva: non si deve aspettare nessun altro!
E il Battista? chi è veramente il Battista?
La testimonianza di Gesù si articola in tre domande rivolte agli ascoltatori: l’uomo incontrato dalla gente nel deserto non è certo una canna mossa dal vento, ma un difensore inflessibile della giustizia contro i prepotenti. Non è neppure un cortigiano dalla vita lussuosa, ma un asceta austero. Se la folla andava da Giovanni per incontrare un profeta, Gesù ne è d’accordo, ma supera questa prospettiva: Giovanni è più di un semplice profeta perché è il precursore del Messia. Le parole della scrittura riferite a lui lo presentano come un messaggero mandato a preparare la venuta del Signore. Egli nella sua missione è totalmente relativo a Gesù.
È vero Giovanni è sì grande, ma fa ancora parte dell’epoca preparatoria, e i discepoli del Regno sono più grandi di lui.
La figura di Giovanni Battista che ci viene presentata in queste domeniche ci invita ad un percorso di conversione. Naturalmente questo tempo di Avvento è proprio un tempo propizio per decidere di conformare la nostra vita al progetto del vangelo, o almeno di... provarci.
Del resto c’è una via percorribile che è quella della luce per arrivare fino alla meta operando attivamente.
Se tu, (come ci ricorda la “lettera di Barnaba”) sarai semplice di cuore, ma ricco nello spirito; non ti unirai a quelli che camminano nella via della morte disprezzando ogni ipocrisia; non abbandonerai i comandamenti del Signore e non esalterai te stesso, ma sarai umile in tutte le cose, comincerai questo percorso.
Se poi non ti attribuirai gloria inutile e non ammetterai sentimenti di orgoglio nel tuo cuore, ma amerai il tuo prossimo più della tua vita; non sarai avaro e non ti unirai ai superbi, ma frequenterai le persone umili e giuste prendendo bene qualunque cosa ti accada, sapendo che nulla avviene che Dio non voglia; non sarai volubile nel pensare né sarai doppio e precipitoso nel parlare usando il massimo impegno per mantenerti puro nel tuo cuore, procederai spedito in questa via.
Lo esige il tuo bene che ti porta a non stendere la tua mano per prendere e non ritirarla invece nel dare; ad amare “come la pupilla dei tuoi occhi” chiunque ti dirà la parola del Signore e spezzerà per te il pane della vita; richiama il tuo destino finale: quello di godere della compagnia dei santi e di essere parte della eredità del Signore.
Non esitare nel dare, né offri il tuo dono in modo offensivo. Sai bene chi è che retribuisce la giusta mercede. Custodisci intatto quel “deposito di bene” che ti è stato affidato, giudicando sempre con giustizia e non facendo nascere dissidi, ma piuttosto cercando di mettere d’accordo i contendenti per ricondurli alla pace.
Se riconosci di essere peccatore e cerchi di stare unito al Signore con la preghiera in un dialogo sereno e profondo, questa è la via che illumina i tuoi passi per un serio cammino verso il Natale.
Il profeta Isaia è il profeta dei tempi messianici e con lui inizia iltempo dell’Avvento nel quale siamo invitati a “salire sul monte Sion” per incontrare il Signore stesso.
Dalla comunione con Lui, dallo stare nel suo tempio, possiamo imparare le sue vie e possiamo camminare nei suoi sentieri. Il Signore ci aiuterà a costruire la pace perché possiamo camminare nella sua luce. E se Dio si lamenta dell’ignoranza, dell’incomprensione e dell’infedeltà del suo popolo, ciò nonostante propone e promette la sua salvezza come segno della sua potenza.
Con la sua venuta il Messia inaugurerà un tempo nuovo, che sarà come un ritorno alla pace del paradiso: l’uomo in pace con Dio, in pace con se stesso, in pace con gli altri, in pace con tutte le cose.
La sua venuta porterà la pace: “perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque riempiono il mare“.
L’umanità ha dovuto imparare a sue spese che cosa significhi abbandonare Dio ed essere abbandonata da Lui. È stato (da parte dell’uomo) il tempo dell’ignoranza, da parte di Dio il tempo della pazienza. Compiuto questo tempo, quando la notte ormai era avanzata, allora Egli ha mandato il suo Figlio, nato da donna, per la redenzione di tutti gli uomini.
Con la venuta del “nuovo Adamo”, comincia la creazione nuova che si conclude con l’ingresso del Paradiso nuovo.
Abbiamo appena sentito dire al “buon ladrone“ oggi sarai con me in paradiso perché il Signore è vicino a chi lo invoca con cuore sincero.
La profezia, più che predire il futuro, ha il compito di far emergere ciò che è nascosto nel presente e, soprattutto, il compito di mettere a nudo, per mezzo dello Spirito, il cuore dell’uomo.
Cristo è venuto fra noi e l’uomo deve decidere per lui o contro di lui. Il Signore sta alla porta e bussa, chi ascolta la sua voce e gli apre, può mettersi a tavola con lui, già da adesso. Il Signore viene oggi e ti chiama. Vivi bene il presente per non mancare a questo appuntamento.
Abbiamo visto, seguendo il Vangelo di Luca in quest’anno liturgico, che egli dà un’ampiezza ed un’importanza sorprendente ai racconti di conversione (Levi, la peccatrice, il pubblicano, Zaccheo) ed ora, dalla croce, ci presenta un malfattore dal cuore aperto che... va in paradiso.
Naturalmente è sottolineata l’urgenza della conversione, perché nessuno è sicuro dalla violenza gratuita, dagli incidenti o dalle catastrofi naturali. Non sai cosa ti aspetta, e la fragilità della vita umana non fa che mettere in risalto l’urgenza della conversione del cuore che ci invita a correggere continuamente le nostre scelte, i valori, gli orientamenti di fondo per non arrivare alla fine della vita e dover “passare” per il “rotto della cuffia”.
Qui è presentato l’ultimo dei quadri della conversione: il “buon ladrone”. Gli altri evangelisti hanno rilevato la presenza al fianco di Gesù sulla croce di due malfattori che lo insultano entrambi.
Luca sviluppa la scena e distingue invece i due personaggi. Soltanto il primo “insulta” Gesù: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”. L’altro rimprovera il suo collega, poi una sola invocazione: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!”.
È uno spiraglio aperto, una conversione del cuore all’ultimo minuto! Non occorre altro perché la porta si spalanchi: “In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso”.
Nella catechesi e nella predicazione ordinaria si parla di un cattivo e di un buon ladrone. I due, in realtà, erano malfattori allo stesso modo, condannati probabilmente per lo stesso crimine (atti di rivolta o di terro rismo, al servizio di una ideologia sanguinaria in cui proprio Gesù non ha voluto lasciarsi implicare).
Luca descrive la scena della riabilitazione di un criminale. Salvezza rubata, si potrà dire. Sì, certo. Ma ogni salvezza non è forse in un qualche modo rubata? La vita eterna, in partenza, è sempre il bene di un altro (dell’Altro)! Bisogna riconoscerlo: ogni salvezza è gratuita, del tutto immeritata.
Il Vangelo di Luca conclude l’attività di Gesù a Gerusalemme, prima dell’arresto, con un discorso sulla “fine del mondo”.
Con la sua attenzione per la storia l’evangelista può ridimensionare quella prospettiva catastrofica che i fanatici aspettavano con impazienza, ma rimprovera anche l’atteggiamento dei delusi e rassegnati che ormai non si aspettano più il ritorno del Signore.
Luca richiama gli uni e gli altri all’impegno presente, nel tempo della Chiesa. Questo è il tempo della testimonianza, in mezzo anche alle persecuzioni violente, perché la speranza ci fa perseverare nell’attesa della liberazione con il ritorno del Signore risorto.
Si tratta di un discorso pubblico, fatto nel tempio, nel quale Gesù riprende le immagini e il linguaggio dei profeti classici (Geremia, Malachia, Ezechiele) che annunciano la distruzione totale di Gerusalemme i cui segni premonitori sono quelli che ricordano la caduta della città ad opera dell’esercito romano.
Ma non è ancora la fine. I cristiani non devono perdere l’aggancio con la realtà storica, anche quando questa è un impasto di menzogne, violenze e sconvolgimenti assurdi da far quasi desiderare la fine. I credenti e la comunità non possono farsi illusioni: devono confrontarsi con la via seguita da Gesù, quella della fedeltà e del coraggio anche di fronte al potere violento e alla morte brutale.
Luca invita alla testimonianza coraggiosa e alla perseveranza.
Lo stesso atteggiamento deve animare i cristiani che hanno visto questa testimonianza e hanno conosciuto il giudizio di Dio sulla città di Gerusalemme e vivono rivolti alla fine, cioè alla speranza della liberazione piena quando verrà il Signore risorto nello splendore della sua gloria. Dio viene a salvare quelli che sono rimasti fedeli e il vangelo non vuole fornire informazioni segrete sulla fine del mondo, ma rifondare la speranza nell’avvenimento centrale della morte e risurrezione di Gesù.
L’ultima parola sulla fede è una riflessione sul presente per decifrare i segni che mostrano già ora il passaggio dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà.
Lo scopo della legge del “levirato” (cfr. Dt 25,5-10) era quello di “rilevare il nome del fratello defunto” e di dare così continuità alla sua vita. “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”... sono le parole con cui Dio si fa conoscere a Mosè ed indica che i personaggi citati sono sposati tutti con mogli sterili, ma avranno comunque, per l’intervento di Dio, una loro discendenza.
Del resto, lo stesso popolo eletto non porta il nome di Abramo, il capostipite, ma quello di Giacobbe (Israele) e questo sottolinea una “triplice generazione”: è il nome di una vita ricevuta e trasmessa contro la sterilità e la morte, è il nome di quelli che hanno ricevuto la vita da Dio di generazione in generazione.
La vita si perde solo se non si trasmette, si conserva nel darsi.
Nel caso estremo riportato, che può sembrare inverosimile, la domanda finale dei Sadducei è una vera domanda e pone il problema dell’essenza dell’uomo: l’amore dell’uomo e della donna, la stessa generazione dei figli (cose meravigliose) non sono quello che definiscono la radice del nostro essere. Questa consiste nella figliolanza divina che ci assomiglia “agli angeli di Dio”.
Al caso di generazione sette volte fallita e sfociata otto volte nella morte, Gesù risponde capovolgendo la prospettiva: se non vi è risurrezione, non sarà prendendo moglie o avendo figli che si eviterà di sfociare nella morte e di evitare di scomparire. Vivranno solo quelli che riporranno unicamente la loro fiducia in Dio, l’unico vero vivente.
Negare la risurrezione e, in altre parole negare la vita, significa negare l’esistenza stessa di Dio. Alla risurrezione, vale a dire nell’ordine di Dio, la moglie come ciascuno dei figli di Adamo, non si identificherà come sposa o madre, ma per mezzo della sola relazione filiale con Dio, l’unica che sia originaria e che non si possa abolire, la stessa che definisce “gli angeli di Dio”.
La questione sulla risurrezione dei morti divideva già dall’Antico Testamento i due gruppi antagonisti in seno al giudaismo: farisei e sadducei (cfr. At 23,6ss).
I sadducei costituivano una classe ricca e aristocratica, di cui facevano parte molti alti funzionari del tempio, come i sacerdoti, caratterizzata dall’essere conservatori in campo religioso e dal collaborazionismo col mondo romano in campo politico.
I farisei invece credono nella risurrezione dei morti, negli spiriti celesti, negli angeli.
Gesù, nel mezzo di questa controversia, si serve di uno schema “apocalittico” che distingue la situazione del mondo presente da quello futuro per sottolineare la radicale diversità di quel futuro che Dio prepara per i giusti.
I giusti parteciperanno alla vita di Dio senza più la minaccia della morte! La meta finale della speranza cristiana è una vita da figli che, in forza di questa intima comunione con Dio, sono strappati per sempre dalla morte.
Essi allora sono liberi anche dalla preoccupazione di vincere la morte stessa mediante il matrimonio e la procreazione di figli (per continuare in essi la loro vita) e spesso nelle parole di Gesù c’è anche un invito alla verginità come una scelta di vita per il regno di Dio.
Il Dio dei padri è il “vivente” che mantiene una relazione di comunione attuale con tutti i giusti anche oltre la morte.
Per i cristiani che leggono il Vangelo queste affermazioni hanno un solido fondamento nella certezza che Gesù stesso è il “vivente” secondo il disegno di Dio, al di là della morte.
Tutti i credenti già ora partecipano a questa comunione vitale col Padre che neppure la morte può interrompere. Il Vangelo non dà informazioni sull’aldilà, né sulle modalità della risurrezione, ma riafferma la fede nel Dio che vive ed è fedele il quale non smentisce se stesso neppure nello sfacelo della morte.
È proprio su questa certezza che Gesù ha affrontato la sua stessa morte.
Il racconto del Fariseo e del Pubblicano (Lc 18,9-14) che salgono al tempio sono immagini di una parabola speciale perché ciascuno di noi possa meglio riconoscersi nell’uno o nell’altro.
Uno manifesta la disposizione interiore ad una vera conversione; l’altro, sembra non aver bisogno di conversione.
Confrontando gli atteggiamenti, il pubblicano si mantiene a distanza (come nell’ultimo banco della chiesa!), non osa neanche alzare gli occhi, si batte il petto; l’altro sta in piedi, ben diritto (quasi in presbiterio!). Entrambi pregano. Il fariseo non si degna nemmeno di muovere le labbra (“prega tra sé”), compiacendosi a lungo della sua alta prestazione morale e religiosa: «O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano: digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo». Il pubblicano, invece, senza tanti giri di parole esprime apertamente la sua miseria: «O Dio, abbi pietà di me peccatore».
Da una parte, un’autentica spiritualità fatta di supplica e, dall’altra, una “falsa spiritualità da Te Deum”, che ha per oggetto il proprio io anziché Dio creatore e Salvatore. Il contrasto è netto.
La conclusione colpisce il bersaglio: «Io vi dico che questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».
In realtà, i due personaggi rappresentano i due aspetti contraddittori di ciascuno di noi. Il fariseo corrisponde alla facciata: la persona corretta che fa tutto come si deve, ma è troppo convinto che la santità sia il risultato dei suoi sforzi.
Il pubblicano non attende più nulla da se stesso: la sua necessità è evidente. Egli grida il suo bisogno, e l’amore e la giustificazione gli vengono dal Signore.
Così sia il percorso vero di ciascuno di noi.
Riprendiamo il foglietto settimanale lasciato all’inizio dell’estate, così come sono già riprese le attività del catechismo e dell’oratorio. Abbiamo avuto un’estate intensa e un inizio già “sprint” con il Giubileo diocesano a Roma, le feste di S.Lorenzo, S.Abbondio, S.Maria, S.Eufemia... la ripresa della catechesi per adulti (il lunedì sera) e la Scuola di Teologia per laici (il sabato mattina), l’accoglienza di un nuovo collaboratore (don Mario Borella) che il Vescovo ci ha donato...
Ripropongo ora una breve riflessione sul tema del Vangelo di domenica che possa aiutarci a mettere a fuoco un’idea, che ci faccia restare in mente un pensiero, perché il nostro ascolto della Parola non sia vano e superficiale.
La parabola del giudice e della vedova ci ricorda che “non bisogna aver paura di tornare alla carica” nei confronti di Dio, e che la nostra preghiera deve diventare perseverante.
Sì, ma a volte prima di essere esaudita, c’è tutto quel tempo in cui la richiesta rimane delusa, e il “giudice persiste nell’ignorarvi”. L’applicazione della parabola precisa che questo tempo può essere una grande prova per la fede. Una prova a volte così forte da indurre a smettere, a tralasciare di aspettare un Dio che non risponde, i cui ritardi e silenzi portano a considerare come non vero Lui e i suoi interventi, tanto da far dire a Gesù: “ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora la fede sulla terra?”.
Questa esperienza del “silenzio di Dio” potrà sopraggiungere, per i credenti o le comunità, nel bel mezzo di un tempo di prova, come la persecuzione, in cui diventa difficile vivere la fede.
Non bisogna dunque cadere nella tentazione dello scoraggiamento e nel perdere la fede e la speranza in un Dio provvidente e misericordioso. La vera preghiera di richiesta non è però mercanteggiare, ma suppone una profonda relazione con Dio.
Come stai a preghiera? E nella tua “relazione con Dio”?
La comunità cristiana insegna ancora a pregare o propone formule e modalità passate, difficili da fare davvero nostre?
Durante il suo ministero terreno Gesù ha rivelato pienamente il Padre; ha fatto intendere al mondo tutto quello che il Padre gli ha rivelato (cfr. Gv 8,26; 12,50). Egli si è manifestato come l’«inviato», il «Figlio», il Salvatore. Eppure al termine di questa prima tappa, Gesù non è ancora per i suoi che uno sconosciuto (cfr. Gv 14,9).
Bisognerà che, in un secondo momento, essi scoprano la realtà di ciò che hanno visto e udito senza comprendere. Occorrerà una “piena illuminazione”, quella che porterà, dopo la risurrezione, la discesa dello Spirito.
Questo secondo livello di rivelazione “compie” la prima esperienza dell’incontro con Cristo perché Lui, che “dona lo Spirito senza misura” (Gv 3,34) li accompagna con le sue Parole che sono “Spirito e vita” (6,63).
La glorificazione del Cristo segna così una tappa nuova: quella dell’invio dello Spirito, della sua venuta nei credenti e della sua presenza permanente nella comunità.
Allora la Parola penetra nei cuori dei discepoli e diventa vita per l’azione dello Spirito stesso.
Il Padre, con un disegno misterioso di sapienza e di bontà, non abbandona gli uomini a sé stessi, ma provvede loro la capacità di testimoniare il Cristo con la potenza dello Spirito santo.
Egli, infatti, fin dall’eternità ci ha conosciuti nella sua sapienza e ci ha predestinati ad essere conformi alla immagine del Figlio suo, perché Gesù sia il primogenito di una moltitudine di fratelli (Rm 8,29). I credenti in Cristo li ha voluti convocare poi nella Chiesa, resa stabile dall’effusione dello Spirito e che avrà glorioso compimento alla fine dei tempi.
Allora, come si legge anche negli antichi padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, «dal giusto Abele fino all’ultimo eletto», saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale.
Chi è per te lo Spirito Santo? Lo invochi prima delle tue scelte “decisive”? Ti senti in una comunità guidata dallo Spirito?
Il Battesimo che abbiamo ricevuto ci ha già “fatti risorgere con Cristo” e noi siamo persone nuove, rinnovate dallo Spirito Santo che abbiamo ricevuto. Ora siamo chiamati anche ad “ascendere con Gesù” per essere nella comunione profonda col Padre.
Non si tratta di uscir fuori dal contesto della storia, anzi, di esserne profondamente inseriti, ma con uno spirito nuovo, di persone che sanno che la loro destinazione finale non è quaggiù, ma nel “bel Paradiso di Dio”.
Per questo, venuto il regno della vita e distrutto il dominio della morte, sperimentiamo una vita diversa e un diverso modo di interagire fra noi: la nostra stessa natura ha vissuto un cambiamento.
Attraverso la rigenerazione del battesimo abbiamo come madre la Chiesa e ci nutriamo del latte della sua dottrina e delle sue istituzioni. Abbiamo come cibo il pane del cielo che è l’Eucaristia e cerchiamo di vivere con un nuovo stile di vita. La Parola di Dio è la nostra ricchezza e ci dispone ad una vera fraternità che anticipa quella vita eterna e beata che è preparata per coloro che la ascoltano con amore.
In questo nuovo “giorno che ha fatto il Signore” viene creato il vero uomo ad immagine e somiglianza di Dio. Questo inizio deve diventare sempre più il nostro vero mondo, quello atteso da sempre e oggi realizzato nel Cristo che, innalzato da terra e asceso al cielo, porta con sé la nostra natura umana.
«Questo è il giorno che ha fatto il Signore!». Egli ha distrutto le sofferenze della morte perché ha dato al mondo il primogenito dei risorti.
«Io salgo», dice il Signore, «al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17). È una straordinaria notizia! Colui che si è fatto per noi uomo, pur essendo l’unigenito Figlio di Dio, per renderci suoi fratelli, si presenta come uomo davanti al Padre, per portare con sé tutti coloro che ha redento.
Gesù lascia ai discepoli la sua pace (Gv 14,27) Nei vangeli il saluto di pace sulle labbra di Gesù (Shalom) non è soltanto un augurio ma una parola che salva, che va alla radice, là dove sta l’origine della vera pace. La pace di Gesù nasce dalla vittoria sul peccato e sulle sue conseguenze. Ed è una pace che sconvolge la pace del mondo, fondata invece sul peccato, sulla connivenza col peccato. Per questo si può dire che Gesù “non è venuto a portare la pace sulla terra, ma la divisione (Lc 12,51).
Mentre i vangeli sinottici parlano di pace in contesti diversi, Giovanni ne parla solo nel contesto della Passione e della risurrezione: due volte nei discorsi di addio, (Gv 14,27 e 16,33) e due volte nell’apparizione del risorto ai discepoli (Gv 20,19-21.26).
Le ultime parole prima della passione e le prime dopo la risurrezione sono le stesse. L’affermazione di Gesù è solenne. Non si tratta di un semplice augurio di pace ma di un vero “dono” della pace.
La “pace-dono” viene dall’alto: non sorge dalla decisione dell’uomo. La pace di Gesù è diversa da quella che il mondo può offrire. È per questo che Gesù insiste tanto sulla pace: sa che i discepoli potrebbero non riconoscerla.
Quella che lui dà è una pace diversa, persino nascosta nel suo contrario, cioè nelle persecuzioni. È una pace legata alla presenza stessa del Signore. Non sta nell’assenza della croce, ma nella certezza della sua vittoria: una certezza radicata nella vittoria del Cristo stesso: “io ho vinto il mondo” (Gv 16,33).
San Paolo ci ricorda che la pace di cui parla il Vangelo è la stessa persona di Gesù. “Egli è, infatti, la nostra pace perché lui ha fatto dei due un solo popolo...” (Cfr Ef 2): deve perciò instaurarsi fra gli uomini e fra i popoli una nuova condizione. Cristo è la speranza certa per il superamento di ogni discordia.
Non da spirito umano, infatti, che è spirito di parte, viene a noi la pace, ma, secondo lo spirito che viene dall’alto e sta al di sopra delle parti, noi possiamo vivere da veri fratelli.
Il Signore Gesù ci invita ad amarci gli uni gli altri così come lui ci ha amato. Questo è l’amore trinitario che “glorifica” il Figlio di Dio e nella comunione divina chiama anche noi ad esserne partecipi.
Amare “come” Gesù significa amare fino in fondo (fino alla croce) ed amare con la potenza dello Spirito Santo, perché il nostro amore e la nostra fraternità sono sempre fragili.
UN “COMANDAMENTO NUOVO”
Il comandamento di Gesù è “nuovo” nella misura in cui richiede l’umiltà e lo spirito di servizio che conduce ciascuno di noi a prendere l’ultimo posto e ad essere disposti anche a morire per gli altri.
L’amore raggiunge la sua piena espressione in una comunità dove c’è scambio e dono di accoglienza reciproca. L’amore fraterno vissuto fino in fondo è il segno per eccellenza della presenza dell’amore di Dio nella vita degli uomini.
Così il “comandamento nuovo” è strettamente legato al sacramento dell’Eucaristia, che Gesù istituisce nell’ultima cena quando promulga questo comandamento che definisce “nuovo” non perché non esista già (vedi il libro del Levitico), ma perché è nuovo nel suo significato più profondo.
Egli comanda “amatevi come io ho amato voi”, quando dà ai suoi discepoli la prova suprema del suo amore: “li amò sino alla fine”.
Ma non sarebbe possibile amarci come Gesù ci ha amati senza il dono dello Spirito Santo, mediante il quale l’amore stesso di Dio viene riversato nei nostri cuori. Perciò, il comandamento nuovo, l’Eucaristia e il dono dello Spirito Santo costituiscono un unico dono, il dono che Dio fa di se stesso a noi e al quale deve corrispondere il dono di noi stessi a lui.
Ma è davvero possibile amare “come” Gesù ci ama? Tu saresti disposto ad andare “fino in fondo” nell’amore dando anche la vita?
La quarta domenica del tempo di Pasqua è dedicata al buon Pastore e alle sue pecorelle, ma è l’Agnello immolato, diventato il vero Pastore, che raccoglie il suo gregge e lo guida alla vita eterna.
Nella notte della passione Gesù rievoca la profezia di Zaccaria: “Percuoterò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse“. Tutti i discepoli infatti lo abbandonano e fuggono (Mt 26,56); ma ne aggiunge subito un’altra: “dopo la risurrezione, vi precederò in Galilea” (26,32).
Con la sua immolazione, l’agnello redime le pecore, l’innocente riconcilia col Padre i peccatori, il pianto dei discepoli si tramuta in gioia perché: “È risorto il buon pastore“.
L’agnello pasquale è diventato il buon Pastore, che dà continuamente la vita per il suo gregge nel sacrificio eucaristico; che conosce le sue pecore e le chiama per nome.
Nella tradizione di Israele, Dio era il pastore del suo popolo (Ez 34,1; Sal 22,1) e, applicando a sé questa prerogativa, Gesù si mostra come il vero pastore che conosce le sue pecore perché il Padre gliele ha date e nessuno può rapirle dalla sua mano (Gv 10,27-30).
San Pietro, che per primo ha avuto da Gesù l’incarico di pascere gli agnelli e le pecore del suo gregge, ci ricorda che “Eravate erranti come pecore, ma adesso siete tornati al pastore e custode delle vostre anime“. Siamo tornati al Pastore grazie al sacrificio dell’Agnello. Non per nulla nell’Apocalisse è detto: “L’agnello sarà il loro pastore e li condurrà alle sorgenti dell’acqua viva“ (Ap 7,17).
Ai tempi del profeta Ezechiele, che furono i tempi dell’esilio, il Signore vedendo gli Israeliti come un gregge disperso e abbandonato aveva promesso: “Susciterò loro un pastore che li pascerà, Davide sarà il loro pastore“ (Ez 34). Ma Davide, il pastorello di Betlemme diventato re, a sua volta aveva cantato in un salmo: “il Signore è il mio pastore“. Di Gesù, figlio di Davide, il vangelo dice che vedendo una folla numerosa ebbe compassione perché erano come pecore senza pastore“ (Mc 6,34); finché arriva la sua solenne dichiarazione: “sono Io il buon Pastore“.
In questa domenica, con “il discepolo che Gesù amava” e che “vede” più lontano, c’è Pietro che deve “amare più degli altri” e a cui è associato il “primato dell’amore”.
L’amore è forte come la morte! Perché se la morte è capace di privarci del dono della vita, l’amore è capace di ricondurci ad un uso migliore della vita: quello del dono completo di sé.
Forte è la morte, che è capace di spogliarci del vestito di questo corpo, ma forte è anche l’amore, che è capace di strappare le nostre spoglie alla morte e restituircele.
“Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6), perché l’amore di Cristo è la fine della morte.
L’amore poi che portiamo a Cristo, è anch’esso forte come la morte, perché è una specie di morte, in quanto è distruzione della vecchia vita, abolizione dei vizi e abbandono delle opere morte...
È questo l’amore, come una specie di contraccambio, che Cristo chiede a Pietro e a noi, anche se dobbiamo ammettere che il nostro amore sarà sempre impari al suo amore per noi. Egli infatti ci ha amato per primo (cfr. 1Gv 4,10) e con l’esempio del suo amore è diventato per noi un richiamo per renderci conformi alla sua immagine, spogliarci dell’uomo terreno e rivestirci dell'uomo celeste.
Come ci ha amati, così dobbiamo amarlo. A Pietro, poi, è chiesto qualcosa di più: “mi ami tu più di costoro?”. “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”...
La triplice domanda di Cristo ha certo una relazione con la triplice negazione di Pietro, ma Gesù non vuole ora semplicemente reintegrare Pietro nell’apostolato come se gli restituisse la fiducia che si era giocato con tanta leggerezza. C’è un contrasto qui tra la debolezza di Pietro e il compito che gli viene affidato: Pietro è roccia e pastore per grazia, non per merito. La sua solidità viene unicamente dal Signore e richiede perciò umiltà e fede. Pietro ne è consapevole e, nella sua risposta non c’è più presunzione, ma si appella alla capacità del Signore di leggere nel profondo del suo cuore.
La II domenica di Pasqua, quella della Divina Misericordia, un tempo veniva detta la “domenica in Albis” perché i nuovi cristiani riconsegnavano la loro veste battesimale (bianca) ricevuta durante la veglia pasquale. È dunque nel ricordo del nostro battesimo (di cui abbiamo rinnovato le promesse nella Santa notte) che riprendiamo il nostro cammino di cristiani, grati alla testimonianza di Papa Francesco chiamato a sé dal Signore proprio in questi giorni.
“Ora vi precede in Galilea”, ci ricorda l’Angelo: anche tu devi riprendere immediatamente il cammino della fede, perché Cristo Risorto ti precede... È là, altrove... Dio è più avanti, è sempre più avanti di noi, Dio ci aspetta “oltre”. Non si allontana da noi, semplicemente vuole che camminiamo dietro a Lui come veri discepoli.
La fede richiesta a Tommaso è quella richiesta anche a noi: quella di riconoscerlo nella comunità dei credenti, nel “pane spezzato”, nella carità verso i più piccoli e i più poveri, nella ricerca della vera pace.
Con un Dio che ti precede, che è sempre “più avanti di te e del tempo che vivi”, non c’è proprio da stare tranquilli: dobbiamo essere attenti a non mancare l’appuntamento con Lui che è il Risorto, il Vincitore! È facile distrarsi, preoccuparsi (anche giustamente) di altre cose, attardarsi in mille faccende che riteniamo “più importanti” e non accorgerci che quello che conta veramente è Lui: la sua croce che è salvezza e risurrezione.
Se il Signore è “più avanti” significa anche che dobbiamo essere testimoni nel presente per l’avvenire, per la vita che sarà, per quella che sarà definitiva!
Credere nella risurrezione si traduce nel guardare al domani con coraggio e speranza, nel provare a cambiare mentalità (anche nelle questioni religiose), nel non voltarsi indietro, cercando invece nuove forme per vivere la fede. Si tratta di credere senza indugio, di giocarsi la vita con forza nel posto e nel tempo in cui Dio ci ha posti a vivere... se non vogliamo sentirci rimproverare poi dal Signore, come i discepoli di Emmaus: “sciocchi, tardi e lenti a capire”...
Augurando a tutti una serena e santa Pasqua da vivere col Signore e dentro la famiglia, in comunione con tutta la Chiesa e nella gioia del Cristo Risorto, riprendo qualche suggerimento dall’«Omelia sulla Pasqua» di un antico autore.
«S.Paolo ci ricorda che per Cristo la salvezza viene nuovamente data al mondo e come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, cioè dell’uomo vecchio nel peccato, porteremo anche l’immagine dell’uomo celeste (cfr. 1Cor 15,49), cioè abbiamo la salvezza dell’uomo assunto, redento, rinnovato e purificato in Cristo.
Secondo lo stesso apostolo, Cristo viene per primo perché è l’autore della sua risurrezione e della vita. Poi vengono quelli che sono di Cristo, cioè quelli che vivono seguendo l’esempio della sua santità.
Così la passione del Salvatore è la vita e la salvezza dell’uomo. Per questo infatti volle morire per noi, perché noi, credendo in lui, vivessimo per sempre. Volle diventare nel tempo quel che noi siamo, perché, attuata in noi la promessa della sua eternità, vivessimo con lui per sempre.
Questo è il dono della Pasqua, questa è la festa dell’anno che più desideriamo, questi sono gli inizi delle realtà che danno la vita.
Per la Pasqua fiorisce l’albero della fede, il fonte battesimale diventa fecondo, la notte splende di nuova luce, scende il dono del cielo e il sacramento dell’Eucaristia ci dà il suo nutrimento celeste.
Per la Pasqua la Chiesa accoglie nel suo seno tutti gli uomini e ne fa un unico popolo e un’unica famiglia.
Noi possiamo cantare l’inno di questa festa straordinaria: «Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso» (Sal 117,24). È il giorno che ha dato il principio alla vita, l’inizio alla luce: questo giorno è l’artefice dello splendore, cioè lo stesso Signore Gesù Cristo. Egli ha detto di se stesso: Io sono il giorno: chi cammina durante il giorno non inciampa (cfr. Gv 8,12), cioè: Chi segue Cristo in tutto, ricalcando le sue orme, arriverà fino alle soglie della luce eterna».
Secondo un canovaccio tradizionale, che si trova già nel vangelo di Marco, Luca ha sviluppato in modo ordinato e lineare il suo racconto della Passione. Egli però, rispetto a Marco, omette alcuni particolari e ne aggiunge di suoi che qualificano questo racconto in maniera originale.
Omette ciò che può turbare una successione ordinata degli avvenimenti (come l’unzione di Betania, la comparizione notturna davanti al Sinedrio) che risultano così invece consequenziali: arresto di Gesù, rinnegamento di Pietro, insulti delle guardie e istruttoria giudaica seguita dal processo davanti al governatore Pilato.
Elimina tutte le scene e i particolari che feriscono la sensibilità umana per la loro violenza o durezza, non descrive la flagellazione, tace della fuga dei discepoli e, al momento dell’arresto attenua il rinnegamento di Pietro, elimina dalla scena del Getsemani l’angoscia e la paura di Gesù e anche il grido dalla croce non è interpretato con le parole del Sal 22, come abbandono di Dio, ma con il Sal 31 che esprime fiducia totale nel Padre.
Ci sono poi delle aggiunte: nel giardino Gesù è confortato da un angelo e lotta come un martire o atleta fino al sangue. Gesù si oppone alla violenza dei discepoli al momento dell’arresto, anzi ne ripara le conseguenze guarendo l’orecchio della guardia colpita; è lo sguardo di Gesù che provoca la conversione di Pietro dopo il rinnegamento.
Con una serie di ritocchi e correzioni, aggiunte di dettagli e ampliamenti Luca definisce in modo preciso la fisionomia di Gesù durante la passione. Egli è il martire fedele e paziente, il giusto perseguitato che, attraverso la perseveranza e la bontà, diventa fonte di salvezza per tutti coloro che lo incontrano. Non solo, ma così vince la potenza del male attuando il progetto di Dio in modo paradossale e inatteso. Lui, il crocifisso, nel momento dell’insuccesso totale, diventa fonte di perdono per il peccatore pentito, il brigante, e di conversine per l’intero popolo di Dio.
Così deve essere il discepolo che vuole seguirlo: deve stare in una sintonia profonda con lui.
Il Levitico (20,10) e il Deuteronomio (22,22) prescrivevano che l’adulterio fosse punito con la morte per lapidazione. Questo offre agli scribi un’occasione per mettere Gesù alla prova.
Il racconto è molto chiaro e non esige una lunga spiegazione. Innanzitutto notiamo il fatto che gli scribi non ricorrono a Gesù con sincerità di cuore, ma per metterlo alla prova. Lo sanno amico dei peccatori e dei pubblicani, pronto al perdono: perdonerà anche all’adultera, rifiutandosi di applicare la legge di Mosè? In tal caso si potrà fare contro di lui una denuncia precisa e procedere di conseguenza.
Costoro dunque non cercano la verità. Hanno già condannato Gesù a priori: cercano soltanto un appiglio giuridico, una copertura legale. Dapprima sembra che Gesù non voglia rispondere. Si comporta come se essi, i tentatori, non esistessero: scrive con un dito per terra. Queste non sono persone da ascoltare, non sono in cerca della verità, ma di un capo di accusa. Alla loro insistenza Gesù risponde ponendo il problema in termini completamente diversi, insospettati: li coinvolge.
Non ci interessa sapere cosa Gesù abbia scritto per terra (qualche commentatore dice che abbia scritto i peccati dei più vicini a lui...).
In realtà Egli non nega il giudizio di Dio, ma vuole che ciascuno lo rivolga, anzitutto, a se stesso. Adulterio o no, siamo tutti peccatori e bisognosi di conversione e di perdono. Poi Gesù vuole che il giudizio di Dio sia “di” Dio, non dell’uomo. Soltanto Dio può giudicare: come possono farlo gli uomini se sono essi stessi peccatori? Infine Gesù esprime il giudizio: lui è il Figlio di Dio e non è peccatore, pronuncia il giudizio, ma è un giudizio fatto di perdono e di invito alla conversione. Questo è veramente il giudizio di Dio.
Alla fine restano soltanto in due, la “misera” e la “misericordia”.
Il delicato equilibrio tra la giustizia di Gesù nel non condonare il peccato e la sua misericordia nel perdonare il peccatore è una delle grandi lezioni evangeliche.
La parabola di Lc 15,11-32 mette in risalto lo stesso aspetto del volto di Dio già apparso nelle due precedenti parabole (quella della pecora e della moneta perduta). Se Gesù riserva una buona accoglienza ai peccatori e mangia con loro, non fa che manifestare il comportamento di Dio stesso. Dio non soltanto non esclude nessuno dalla salvezza, ma dà la precedenza ai peccatori, verso i quali si dimostra pieno di premura e di misericordia.
“Non è giusto” ci viene da dire, come il fratello maggiore, che Dio offra a tutti la salvezza e che senza eccezione possano tutti far parte del regno di Dio (cfr. la parabola degli operai delle diverse ore: Mt 20,1-15).
Il padre ha due figli, e a questi due figli offre la stessa cosa. Egli vorrebbe che tutti e due partecipassero della stessa felicità che egli è in grado di procurare loro, se essi la vogliono davvero. Il giorno dopo la grande festa, quando la sinfonia tacerà e bisognerà pensare ad ingrassare un altro vitello, il fratello giovane non avrà una felicità diversa da quella del fratello maggiore, quella di vivere con suo padre, di avere parte, giorno dopo giorno, a “tutto ciò che appartiene a lui”.
“Prendere o lasciare”. Tale è l’impressione che si riporta alla fine della parabola. La scelta che il figlio maggiore deve affrontare è chiara: o assume nei riguardi di suo fratello lo stesso atteggiamento di suo padre, e allora può continuare ad avere parte a tutto ciò che appartiene a lui; oppure rifiuta, e allora deve a sua volta andarsene, perché è chiaro che il padre non cambierà il suo comportamento.
Se mi apro al Dio della bontà premurosa e del perdono (lui è davvero prodigo in senso positivo verso il figlio riavuto), devo a mia volta dare prova, come Dio, di bontà premurosa e di perdono. Se lascio entrare nella mia vita un Dio che fa buona accoglienza ai peccatori, dovrò diventare come lui.
O ci sforziamo di imitare il Padre, oppure rinunciamo a vivere con lui e presentarci come figli suoi.
Sullo stile degli antichi profeti anche Gesù vede in alcuni fatti di cronaca dei segni ammonitori di Dio con un invito pressante al cambiamento nella ricerca della sua autentica volontà.
I “segni” di Dio vanno cercati anche nei fatti quotidiani perché possiamo essere pronti a comprendere e “discernere” il tempo di Dio, quello opportuno per la salvezza.
A fronte dei fatti di “cronaca nera” che riportano anche la brutalità dei romani nei confronti delle scaramucce degli zeloti e che vogliono provocare il giudizio di Gesù e una sua presa di posizione “politica”, il Signore dà una risposta che va oltre il fatalismo e il rapporto peccato-castigo che portava i presenti a pensare: «noi siamo giusti perché non abbiamo meritato quella fine orrenda...».
L’uomo non può inquadrare l’azione di Dio in schemi precostituiti per un proprio tornaconto, né ridurre Dio ad un freddo “contabile”, oppure pensare (come facevano farisei e zeloti) di avere una qualche supremazia religiosa e politica in nome di Dio.
L’unico modo per sfuggire alla rovina (quella che si profila e che avrà il suo esito catastrofico con la distruzione di Gerusalemme nell’anno 70) è quello del cambiamento, della “conversione”. Si tratta di una trasformazione interiore che rinuncia ad una continua giustificazione di sé volendo quasi prendere il posto di Dio e sfruttando le disgrazie altrui.
Così Gesù racconta una parabola, sempre attuale, nella quale è offerta a tutti la possibilità di cogliere l’ultima occasione per portare frutto, senza che diventi un alibi per per rimandare all’infinito la propria decisione di cambiare. E se il fico rappresenta Israele e la sua storia con Dio, la conversione è un impegno anche per ogni cristiano di oggi che ascolta la parabola e la comprende.
Gesù, infine, si sta recando a Gerusalemme per vivere la sua passione e donare la sua vita, forse nella sua intenzione c’è anche la possibilità di un ultimo tentativo perché Israele si converta e cambi radicalmente il suo rapporto con il Signore.
Il Monte della trasfigurazione rappresenta, nella nostra Quaresima, quello che rappresentò il monte Sinai per Israele in cammino nel deserto dopo l’Esodo. Con Mosè ed Elia, apparsi con lui nella gloria, Gesù parla del suo «esodo», cioè della sua morte a Gerusalemme che dovrà inaugurare il nostro «passaggio» da questo mondo al Padre.
Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti, rendono testimonianza a Gesù.
Ma a Gesù rende testimonianza il Padre stesso, che fa sentire la sua voce adesso come al momento del battesimo: «Questi è il mio Figlio, l’eletto; ascoltatelo!».
L’improvvisa e fugace gloria della Trasfigurazione è una piccola anticipazione della gloria futura che si manifesterà in noi, quando il Signore trasfigurerà il nostro umile corpo ad immagine del suo corpo glorioso. È un incoraggiamento ad accettare fin d’ora nella nostra vita il mistero della sua Pasqua, dove la morte e la risurrezione sono strettamente legate.
Di fatto i testimoni della Trasfigurazione saranno anche i testimoni della sua agonia nel Getsemani.
Gesù li ha portati sul monte non per farli assistere ad uno spettacolo speciale, ma per prepararli al mistero della croce e perché la loro fede non venga turbata dall’umiliazione della passione volontariamente accolta.
Anche la Chiesa, “corpo totale” di Cristo può vedere nel corpo trasfigurato di Gesù la gloria che risplenderà in ogni suo membro.
S.Luca dice che Gesù salì sul monte a pregare. “E mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto“ identificando la trasfigurazione di Gesù con un momento particolarmente intenso della sua preghiera.
Noi siamo già risorti con Cristo, e tuttavia siamo ancora come morti, perché “la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio”, e dobbiamo attendere che essa si manifesti. Quando si manifesterà Cristo, nostra vita, allora anche noi saremo trasfigurati con lui nella gloria. È nella preghiera con Gesù che noi prendiamo coscienza che lui è la nostra vita e che anche noi siamo figli che Dio ama.
Nelle tentazioni Gesù si rivela Figlio di Dio. Colui che era stato proclamato “figlio unico” dopo la discesa dello Spirito Santo, ora, sotto la guida dello stesso Spirito, va nel deserto, dove sarà messa alla prova la sua qualità di “Figlio di Dio”.
S.Luca fa emergere la figura di Gesù, guidato dalla potenza dello Spirito, che garantisce già l’esito del confronto con il tentatore. Il racconto si sviluppa in tre scene costruite attorno a un dialogo intessuto di testi biblici. Sono due modi diversi di leggere la scrittura o di interpretare la “via di Dio”. La parola di Dio sulle labbra del diavolo serve per giustificare la via del successo facile, del potere e dominio o del prestigio spettacolare. La linea di Gesù è contrapposta a questa, non per un modo più sottile e abile di maneggiare la scrittura, ma per una sua scelta di fede.
La via di Gesù, che si conclude a Gerusalemme, è quella della fedeltà radicale a Dio nonostante l’opposizione, la perdita totale del prestigio e del potere. Egli si rivelerà il “Figlio di Dio” non attraverso il privilegio del miracolo facile, del successo garantito o sulla base di una protezione sicura, ma nella zona scoperta delle contraddizioni, dell’ambiguità, dei limiti umani.
È questa la via che egli sceglierà in modo deciso (Cfr 9,51).
Con la prima tentazione Gesù insegna ai discepoli a chiedere il pane giorno per giorno, il pane dei poveri che sono fiduciosi nella generosità del Padre.
Con la seconda tentazione rivela la sconfessione più clamorosa della logica del potere e la fine del pseudo-potere di Satana. Come Figlio egli è solidale con tutti i figli che riconoscono un solo Signore e Dio. In questo sta la garanzia contro tutte le prepotenze sacrali e idolatriche delle istituzioni.
Con l’ultima tentazione (che Luca ha spostato a Gerusalemme, ultima tappa del suo cammino) Gesù mostra che una falsa protezione di Dio, suggerita astutamente dal diavolo, non gli risparmierà lo scandalo o l’inciampo della morte in croce.
Il Vangelo di questa domenica ci propone alcune alternative, presenti nella vita, perché il discepolo possa scegliere la strada giusta al seguito dell’unico e autorevole «maestro». La prima immagine presentata è quello della guida di un cieco nei confronti di un altro cieco ed è rafforzata poi da quella dell’immagine della correzione da parte di un uomo che ha una trave nell’occhio.
Il primo paragone è forse diretto inizialmente contro i farisei, le guide spirituali che sviavano il popolo di Israele (Cfr. Matteo 15,14; 23,16.24). Nell’attuale contesto di Luca questo richiamo sembra rivolto contro le false guide della comunità che pretendono di essere al di sopra del maestro stesso.
Uno solo è l’autentica guida, uno solo è il maestro e tutti gli altri sono discepoli.
La seconda similitudine, mediante l’immagine grottesca e paradossale della trave nell’occhio, rende evidente l’assurdità di chi si presenta come giudice del fratello.
Chi giudica gli altri spesso giustifica sé stesso (vedi la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio), illudendosi nella propria ipocrisia e cercando di mascherare il profondo divario tra la sua convinzione interiore e il comportamento esterno. Solo una lucida autocritica è la condizione vera per aiutare, con misericordia, il fratello a correggersi.
La seconda serie di similitudini, che si illuminano la vicenda, propone poi la verifica delle scelte del vero discepolo: l’albero e i suoi frutti. Dall’albero buono vengono frutti buoni, cattivi da quello cattivo. L’uomo deve fare i conti con quello che è il suo “deposito” interiore, quello che tiene nel “cuore”.
C’è un legame intimo tra l’intenzione profonda, il centro, la radice della personalità, (il “cuore” come lo chiama il Vangelo) e il comportamento esterno nell’agire come nel parlare. Ciò che importa non è tanto e solo l’agire esterno conforme ad un codice di norme, ma la verifica del cuore. In ultima analisi è dal cuore buono, dalla coscienza cioè illuminata e pulita, che un uomo può far scaturire una vita autentica.
Dopo l’annuncio della salvezza ai poveri, espresso nelle beatitudini, il discorso nel vangelo di Luca riprende con una sintesi meravigliosa: l’amore totale e incondizionato per tutti. La struttura di questo “piccolo catechismo cristiano” è ben articolata in alcuni passaggi.
1. Amore verso i propri nemici.
Amare i nemici, quelli personali, vuol dire “fare del bene”, benedire e pregare per quelli che hanno sentimenti e atteggiamenti che si oppongono ai nostri. Ad un crescendo di ostilità corrisponde un crescendo di amore. Un amore che non viene meno neppure di fronte alla palese ingiustizia che si approfitta della bontà e remissività del discepolo. L’insulto personale, lo schiaffo, l’ingiustizia, il sopruso, la violenza ingiusta, come la rapina e il raggiro fraudolento, non smuovono il discepolo dalla ferma risoluzione di un amore fedele.
2. Amore disinteressato e gratuito.
Tre brevi domande sull’amare, fare del bene e dare in prestito, illustrano un amore che manifesta la gratuità di Dio che è fedele e creativa. La ricompensa ultima sarà quella di essere figli dell’altissimo, meta di una vita vissuta in uno stato e che già ora impegna il discepolo a donarsi senza condizioni e senza riserve, in maniera disinteressata, rendendo così visibile l’amore vero di Dio.
3. Perdono e generosità.
Da Dio impariamo un amore che, di fronte alla miseria e alle deficienze umane, si traduce in “misericordia” cioè accoglienza, benignità, dare credito e fiducia. Caratteristica biblica dell’amore di Dio è il ripartire sempre da capo, con fedeltà, accogliendo e proteggendo i deboli. Con la formula «Siate dunque misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso», siamo richiamati allo stile e alla forza del Padre dove misericordia, accoglienza e perdono fraterno, trovano spazio per esprimersi al meglio.
Per questo “non giudicare” vuol dire non condannare, “non condannare” vuol dire dare credito al fratello che sbaglia, puntare sul suo futuro e sulle sue possibilità di cambiamento.
Questo solenne annuncio di Gesù, fa eco al “discorso programmatico” nella sinagoga di Nazareth. Anche qui viene data la “buona notizia“ ai poveri: il regno di Dio, cioè la sua giustizia e fedeltà, sta dalla parte dei poveri. A questo annuncio viene contrapposto, come il rovescio di una medaglia, la proclamazione della rovina per i ricchi.
Per comprendere questo testo di Luca si deve rispondere ad alcune domande: quale è lo scopo delle beatitudini? Chi sono i poveri e rispettivamente i ricchi? Che cos’è il regno di Dio?
La “beatitudine“ è un genere letterario caratteristico della Bibbia, usato dai profeti e dai sapienti per dare un annuncio di gioia che riguarda il presente o una promessa rivolta al futuro.
Non si tratta dunque di un augurio astratto o di un desiderio religioso ma di una dichiarazione solenne, fatta con l’autorità e la forza di Dio che agisce nella storia per attuare la sua giustizia. I destinatari di questo annuncio sono i “poveri”.
Sono le persone che “stanno sotto”, che dipendono da altri, secondo il significato originario del termine biblico “anawim”: quelli che sono privi di sicurezza materiale e sociale.
Ora, come già nel discorso di Nazareth, Gesù dice: è venuto il tempo atteso dai poveri, la loro speranza non è stata delusa; Dio è qui e interviene a loro favore. Per questo essi sono “beati“ fortunati.
Non per la loro condizione sociale precaria, ma perché con Gesù, Dio prende la difesa dei poveri, rende giustizia a chi ne è privo, offre una speranza e un futuro a chi ne è senza. E questo non perché i poveri sono migliori dei ricchi, più bravi e generosi dei potenti e degli arrivati, ma perché Dio è giusto e fedele e per questo si immerge nelle situazioni della storia umana per tirar fuori gli oppressi e dare giustizia agli esclusi.
I destinatari delle beatitudini sono i discepoli: essi condividono la condizione dei poveri, perché si sono esposti all’insicurezza e all’emarginazione sociale per essere fedeli al figlio dell’uomo.
Gesù ha tracciato il suo programma a Nazareth, ha guarito i malati a Cafarnao. Quelli di Nazareth lo hanno respinto, quelli di Cafarnao volevano tenerlo, sequestrarlo per sé.
Con questo nuovo episodio sulla riva del lago di Galilea, il contorno della missione di Gesù si va precisando: egli è il predicatore itinerante che annuncia la Parola di Dio alla gente. Ma in mezzo a questa folla anonima Gesù fa emergere alcune persone perché condividano la sua missione e le associa al suo destino: sono i suoi “discepoli”.
Fra questi spicca Simon Pietro sulla cui barca sale Gesù per rivolgere la parola alla gente. A questa prima scena di introduzione segue quella della “pesca miracolosa” che prepara il momento più importante di tutto il racconto: la chiamata di Pietro alla nuova missione al seguito di Gesù.
Il legame fra questi tre momenti è costituito dalla «parola» di Gesù. All’inizio egli annuncia la «parola di Dio» alla gente che si accalca sulla riva; è poi sulla parola di Gesù che Pietro getta le reti al largo, ed è ancora sulla sua parola che lascia tutto con i compagni e si mette a seguirlo.
La pesca straordinariamente abbondante in pieno giorno, contro le usanze normali della pesca, è una rivelazione per Pietro e i suoi compagni. I particolari delle reti che quasi si rompono, delle barche che quasi affondano per la grande quantità di pesci preparano bene l’incontro decisivo con Gesù. Simone, con l’aggiunta singolare del soprannome “Pietro”, riconosce nel “maestro” che ha dato quell’ordine strano il “Signore”. E nello stesso tempo egli coglie la sua distanza o indegnità: Pietro è un peccatore!
Gesù, con una nuova parola supera la distanza aprendo a Pietro un nuovo futuro: d’ora innanzi tu sarai impegnato nella “cattura di uomini”. La parola di Gesù che un momento prima ha operato la pesca fortunata, ora cambia la vita di Pietro.
Gli abitanti di Nazareth, dopo che Gesù ha pronunciato il suo “discorso programmatico” nella sinagoga, comprendono che quello che dice è la buona notizia del Vangelo, ma non intendono accettarla così. Da quanto sembra dire Gesù, i poveri, gli affamati, gli afflitti sono quelli davvero «fortunati» perché qui e ora inizia la loro liberazione. Non si tratta soltanto di slogan che vengono dalla solita propaganda religiosa: qualcosa davvero sta cambiando e sembrano entusiasti di un discorso che rende palese l’amore gratuito di Dio e fa intuire la forza storica di questa nuova realtà.
Ma quali garanzie Gesù può dare di credibilità? È uno di loro, il «figlio di Giuseppe». Il comportamento sociale non permette innovazioni di sorta.
San Luca non sta solo descrivendo il processo psicologico degli ascoltatori di Nazareth, ma riproduce in piccolo le reazioni di accoglienza e di rifiuto che hanno accompagnato tutta la vicenda di Gesù e quella dei suoi discepoli. Su questo sfondo si comprende il cambiamento brusco dei compaesani nei suoi confronti.
L’oggi della salvezza per quelli di Nazareth vuol dire: miracoli, attività guaritrice a favore dei propri malati e Gesù farebbe bene, sembrano quasi suggerire, a impiantare a Nazareth una “clinica” taumaturgica negli interessi della sua causa: «Medico cura te stesso».
Ma lo stile di Dio è contro queste limitazioni da “clan religioso” o queste pretese monopolistiche perché egli sceglie quelli di fuori, gli estranei, per portar loro salvezza come nel caso dei profeti Elia ed Eliseo. La reazione dei Nazaretani non si fa attendere: richiama il linciaggio di Stefano e il furore dei giudei delle sinagoghe della diaspora ai quali Paolo annuncia Gesù il Messia (Cfr At 9).
L’evangelista intende, con questo accostamento, giustificare anche la missione verso i pagani operata dalla chiesa primitiva. Essa infatti causò la persecuzione da parte dei giudei.
Domenica 26 gennaio, III del Tempo Ordinario, è stata voluta da Papa Francesco come “Domenica della Parola di Dio”. Già qualche tempo fa offrivo queste considerazioni che mi fermo a riprendere:
➫ Abbiamo smarrito la familiarità con il linguaggio della Parola, che ̀è il linguaggio-chiave di Dio insieme con l’Eucaristia per esprimere la sua logica di amore e di salvezza. (Non è linguaggio unico, ma essenziale: va sottolineato il primato della PAROLA).
➫ Una Parola che ̀ è storia. Di più: persona: Gesù Cristo
➫ Allora il nostro sforzo è quello di lasciarci trasformare dalla Parola che è efficace perché “realizza quello che significa” (Cfr. Is 55 "Come la pioggia e la neve...”)
Innanzitutto occorre capire il linguaggio di Dio che si declina immediatamente nel conoscere la sua Parola e comprenderne la “logica” [perché Dio dice e agisce così?]; poi mettere in rapporto la Parola di Dio e la Sacra Scrittura:
➫ Una Parola “diversificata” (AT; NT; Torah, Profeti, Saggi...)
➫ Una Parola “storicizzata” (tempi diversi della storia di Israele e della Chiesa: la “pedagogia di Dio”).
➫ Una Parola “esemplare” (forza e verifica delle tue scelte di oggi: (prova a vedere Mt 7,24-27)
➫ Una Parola per “pregare” e per “vivere” (Cfr. Salmi, Proverbi, Cantico dei Cantici...).
➫ Una Parola che suggerisce scelte concrete e coraggiose.
➫ “La” PAROLA (che è Gesù Cristo, Verbo di Dio)
S. Gerolamo dice: “L’ignoranza delle Scritture ̀ ignoranza di Cristo”
Ma noi vogliamo comprendere i linguaggi della Bibbia?
Come partecipiamo alla catechesi biblica?
Quale ̀ il nostro sforzo di conoscere-studiare-amare la Sacra Scrittura?
Quanto trasforma di fatto la nostra vita?.
L’episodio delle “nozze di Cana” chiude l’Epifania del Signore: Egli si rivela ai suoi discepoli manifestando la sua “gloria” ed essi “credono” in Lui.
Il vangelo di Giovanni presenta un “miracolo” a Cana di Galilea con Gesù che si presenta come il Messia atteso che pone fine alla logica religiosa antica, rinnovandola nella sua persona. Non più l’acqua delle purificazioni ma il vino nuovo, abbondante, che dà inizio al mistero della salvezza.
Questo è il “primo” dei “segni” di Gesù da considerarsi non tanto in termini di tempo, ma come modello di tutti gli altri. Egli manifesta la sua gloria e i discepoli credono in lui, ma con quale fede? E cosa significa “credere in lui?”.
Il segno va nella direzione messianica: ci sono le nozze, il banchetto, il vino in abbondanza e di ottima qualità che sostituisce le abluzioni rituali. Gesù è il Messia atteso e la Nuova Alleanza supera l’Antica. Per questo la fede esige una conversione.
Sono presenti anche il tema “dell’ora” e quello “della gloria” che danno al segno compiuto un senso ancora più profondo. La “gloria” di Gesù sarà l’innalzamento sulla croce (da non separarsi in Giovanni dalla risurrezione e ascensione al cielo) e “l’ora”, che in qualche modo viene anticipata in questo gesto salvifico, è quello della croce stessa, vissuta nella piena conformità al volere del Padre.
La fede cristiana è uno slancio, un atteggiamento dinamico, perché non si crede in una dottrina, ma in una persona. Il discepolo si fida Gesù, si abbandona a lui e si lascia condurre. Questo è l’atteggiamento che richiama Maria “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”.
Il segno avvia alla fede, ma la fede consiste soprattutto nel saper leggere i segni e vedere in essi la manifestazione di Dio.
Non c’è altro compito e altro significato per Maria, per la Chiesa per il credente che essere un invito in direzione di Cristo.
«Oggi la Chiesa, lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo, accorrono i Magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa». Il Battesimo nel Giordano fa parte di questa triplice «manifestazione» del Signore.
Confondendosi con la folla dei peccatori Gesù afferma la sua solidarietà con l’umanità intera, e immergendosi nelle acque del Giordano preannuncia un’altra “immersione” di cui presto parlerà: “C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!” (Lc 12,50).
Il battesimo nel Giordano prelude perciò al battesimo della Croce. La croce è il traguardo finale, il massimo dell’obbedienza. Il Padre risponderà col massimo dell’esaltazione.
Ma già a questo primo abbassamento, il Padre dal cielo risponde con uno sguardo di amorosa compiacenza, sguardo che comprende tutta la nostra umanità di cui Cristo è il “capo”. Si squarciano i cieli e si ode la voce del Padre: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”.
Col battesimo nel Giordano, Gesù intraprende il suo cammino verso la redenzione. E noi... discendiamo con lui per salire con lui al Padre. Discendiamo nell’acqua del battesimo per immergerci nella sua morte, e risaliamo con lui partecipi della sua risurrezione in virtù di quello Spirito che il Risorto dona a noi.
Gesù è colui che battezza nello Spirito Santo e, in quel momento, ha ricevuto l’unzione dello Spirito in riferimento alla sua missione.
Nella sinagoga di Nazareth egli applicherà (nel suo discorso programmatico) su di sé la famosa profezia di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunciare ai poveri il lieto messaggio” della salvezza (Cfr Lc 4,16-19).
Il Battesimo di Gesù è, dunque, il momento della sua “vocazione” e della sua “missione” al servizio di Dio e dei fratelli.
Oggi la stella ha guidato i Magi al Presepio. La stella è la luce che il Padre fa rifulgere nel cuore dei Magi, che sono le primizie delle genti, e vengono dall’Oriente ricalcando le orme e il percorso di Abramo.
Dietro di loro ci siamo anche noi, mondo miscredente, chiamato dalle tenebre alla sua luce, guidati dalla medesima stella, la vera sapienza, per arrivare così fino alla conoscenza perfetta della gloria di Dio che brilla sul volto di Cristo.
Oggi sulle acque del fiume Giordano, dove Gesù si immerge accettando la solidarietà con la nostra razza peccatrice, scende lo Spirito Santo e si fa sentire la voce del Padre “questi è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto”.
Oggi i Magi corrono alle nozze regali che Dio celebra con la sua Chiesa portando i loro doni. Il Re che è nato a Betlemme è lo Sposo dell’umanità e l’uomo può offrire a Dio quello che ha ricevuto a sua volta in dono. Il Bambino che ci è nato, questo Figlio che ci è stato dato, è il dono in cui si riassumono tutti gli altri doni: ecco perché la Chiesa oggi non offre più oro, incenso e mirra, ma quello che che i doni dei Magi simboleggiano: Gesù Cristo, figlio dell’uomo e figlio di Dio, povero e ricchissimo.
Nei Magi vediamo le primizie della nostra fede e con gioia celebriamo gli inizi della nostra speranza. Non ci resta che attenderne il compimento con la manifestazione del “nostro grande Dio e Signore Gesù Cristo” apparso oggi nella nostra carne e che verrà nella gloria per manifestare il suo perdono e la sua misericordia.
Beato chi non si scandalizza dell’umiltà di Dio e chi lo cerca con cuore sincero. Un credente confida in chi ha creduto ed accetta tuttavia le tenebre che a volte nascondono il suo volto, ha sete di Dio e cammina sempre verso di lui. Sa di non essere solo sulla strada, ma di camminare insieme con la moltitudine sterminata promessa ad Abramo, padre dei credenti, di cui i Magi sono la primizia.
Proviamo in questi giorni a guardare Maria, la “mamma di famiglia” a Nazareth e la “Theotokos” (la Madre di Dio). In Maria il Verbo ha assunto la natura umana ed ha condiviso la nostra storia, facendosi nostro fratello. La madre di Dio che festeggiamo all’inizio di quest’anno giubilare ci faccia dono di una speranza vivace con la benedizione di Dio che ci accompagni per l’anno intero.
Spesso la benedizione evoca soltanto le forme più superficiali della religione, formule a volte borbottate, pratiche vuote di senso, alle quali tanto più si tiene quanto meno si ha fede.
La benedizione è un dono di Dio che ha rapporto con la vita ed il suo mistero ed è un dono espresso mediante la parola e quanto evoca. La benedizione è sia la parola espressa sia il bene che essa apporta che di fatto non è mai un oggetto preciso, perché non appartiene alla sfera dell’avere, ma a quella dell’essere.
Se la santità, che ci consacra a Dio, ci separa dal modo di pensare del mondo profano, la benedizione rivela la generosità inesauribile di un Dio che è il “benedetto” per eccellenza e che possiede ogni benedizione. La benedizione è dunque una “confessione della potenza divina” e insieme il “ringraziamento per suoi doni”.
In questo Tempo di Natale che inizia con i primi vespri del Natale del Signore e termina con la domenica dopo l’Epifania la Chiesa celebra il mistero della MANIFESTAZIONE del Signore: la sua umile nascita a Betlemme, annunciata ai pastori; l’Epifania ai Magi, “giunti dall’Oriente”, primizia delle genti, che nel neonato Gesù riconoscono e adorano il Cristo Messia; c’è poi la “presenza” di Dio presso il fiume Giordano, in cui Gesù è proclamato dal Padre “figlio prediletto” e inaugura pubblicamente il suo ministero con il segno compito a Cana di Galilea con il quale Gesù “manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11).
Preparandoci al Natale del Signore, ricordiamo i motivi per cui il Signore stesso decide di farsi uomo nell’incarnazione esaltando grandemente la natura umana. Lui stesso si fa dono a noi, per questo siamo chiamati anche noi a “farci dono” per i nostri fratelli.
Ci ricorda S.Ireneo che Dio e tutte le sue opere sono gloria dell’uomo; e l’uomo è la sede in cui si raccoglie tutta la sapienza e la potenza di Dio. Come il medico dà prova della sua bravura nei malati, così anche Dio manifesta se stesso negli uomini.
Se l’uomo riceverà con amore l’autentica gloria che viene da Dio, e se resterà nel suo amore in continuo rendimento di grazie, avrà una gloria maggiore e progredirà sempre più in questa via fino a divenire simile a colui che per salvarlo ha donato la sua vita.
Il Figlio stesso di Dio infatti scese «in una carne simile a quella del peccato» (Rm 8,3) per condannare il peccato e, dopo averlo condannato, escluderlo completamente dal genere umano. Chiamò l’uomo alla somiglianza con se stesso, lo fece imitatore di Dio, lo avviò sulla strada indicata dal Padre perché potesse vedere Dio, e gli diede in dono il Padre.
Il Verbo di Dio pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre. Egli è l’Emmanuele (il Dio-con-noi): poiché lo stesso Signore salvava quelli che di per se stessi non avevano nessuna possibilità di salvezza.
Per questo Paolo ci ricorda che la salvezza non viene da noi, ma da Dio e ci presenta il nostro liberatore: l’amore gratuito del Signore Gesù Cristo (cfr. Rm 7,25).
Del resto gli stessi profeti avevano predetto questo dicendo: “Irrobustitevi, mani fiacche e ginocchia vacillanti, coraggio, smarriti di cuore, non temete; ecco il nostro Dio, opera la giustizia, darà la ricompensa. Egli stesso verrà e sarà la nostra salvezza” (cfr. Is 35,4).
La terza domenica di avvento si caratterizza per il senso di gioia che esprime, così come dovrebbe essere per la vita di ogni cristiano. Non sempre, a causa dei problemi che ci assillano, delle fatiche, degli acciacchi, delle preoccupazioni e delle sofferenze che affrontiamo nella vita, è possibile manifestare e vivere questa gioia, ma deve rimanere sullo sfondo quel senso di gratitudine e quella voglia di fraternità che ci rende capaci di mostrare questa gioia profonda che deve essere in noi.
È l’anticipo di quella “Vita beata” di cui ci parlano i santi dicendo: «Mi sazierò di gioia quando apparirà la tua gloria!». (S.Tommaso).
Quando saranno compiuti tutti i nostri desideri, cioè nella vita eterna, non avremo più bisogno della fede perché vivremo la nostra unione con Dio. Egli stesso, infatti, è il premio ed il fine di tutte le nostre fatiche. Sarà la perfetta soddisfazione del desiderio perché avremo più di quanto abbiamo desiderato e sperato secondo quanto dice S.Agostino: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è senza pace fino a quando non riposa in te».
Così prenderemo parte alla gioia del nostro Signore (Cfr. Mt 25,21); e ancora S.Agostino aggiunge: «Tutta la gioia non entrerà nei beati, ma tutti i beati entreranno nella gioia. Mi sazierò quando apparirà la tua gloria»; ed anche: «Egli sazia di beni il tuo desiderio». Tutto quello che può procurare felicità, là è presente ed in sommo grado. Se si cercano godimenti, là ci sarà il massimo e più assoluto godimento, perché si tratta del bene supremo, cioè di Dio: «Dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 15,11).
La vita eterna poi consiste nella gioconda fraternità di tutti i santi. Sarà una comunione di spiriti estremamente deliziosa, perché ognuno avrà tutti i beni di tutti gli altri beati. Ognuno amerà l’altro come se stesso e perciò godrà del bene altrui come proprio.
Così il gaudio di uno solo sarà tanto maggiore quanto più grande sarà la gioia di tutti gli altri beati.
“O Donna gloriosa, alta sopra le stelle, tu nutri sul tuo seno il Dio Che ti ha creato. La gioia che Eva ci tolse ci rendi nel tuo Figlio e dischiudi il cammino verso il regno dei cieli. Sei la via della pace, sei la porta regale: ti acclamino le genti redente dal Signore”.
(Inno liturgico)
Eva non credette alla parola di Dio, e fu ingannata dal serpente. Ma proprio nel momento della sconfitta, il Signore annunciò la redenzione del genere umano ad opera di una Donna. È il primo annuncio della salvezza, la prima buona notizia data agli uomini da parte di Dio: il “Proto-vangelo”.
L’annuncio diventa più esplicito sulla bocca del profeta Isaia, sette secoli prima di Cristo. In un’ora disperata per la sorte della casa di Davide e per l’intero popolo, il profeta annuncia l’intervento di Dio con un “segno” incredibile: «Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, Dio-con-noi».
La Vergine Maria crede alla Parola di Dio, cui niente è impossibile, con totale disponibilità, e niente diventa impossibile a chi crede in lui. Dio aspetta questa fede generosa, questa obbedienza pronta, questa accoglienza amorosa per venire ad abitare in mezzo a noi.
Maria ha parlato poco, ma ha ascoltato molto. Ci ha insegnato a tacere, adorare e godere in silenzio dei misteri di Dio.
La liturgia natalizia fa osservare che il Verbo di Dio ha scelto il silenzio della notte per lasciare la sua abitazione regale e venire a piantare la sua tenda in mezzo a noi. Dio ci dona il suo Verbo nel silenzio, e nel silenzio dobbiamo imparare ad ascoltarlo.
La notte si illumina all’improvviso, gli angeli cantano, i pastori accorrono e, visto il segno, ritornano a casa lodando e glorificando Dio. Maria vede tutto e non dice nulla. Tace e gode di tutto quello che Dio compie conservando nel suo cuore tutte queste cose, collegandole insieme.
Essa possiede il gusto di ascoltare le cose di Dio che è la vera sapienza e la vera contemplazione.
«Cari fratelli e sorelle, vi invito a correre di nuovo incontro al Signore che viene nel tempo dell’Avvento che si avvicina. Il nostro Dio non si stanca mai di attenderci, di venire a cercarci, suscita sempre inedite occasioni di salvezza, mentre aspetta solo che noi lo accogliamo con gioia e umile consapevolezza.
Egli viene tra noi per spalancarci le porte della Vita, essendo Egli sempre perseverante nel suo amore. Con questa certezza nel cuore, che suscita in noi la gioia della speranza, sapremo allenarci per affrontare l’ormai prossimo Anno santo, occasione propizia per riflettere su questa fondamentale e decisiva virtù cristiana. Noi discepoli del Signore Gesù abbiamo il dovere di coltivarla e di metterla a frutto per il bene di tutti i nostri fratelli in umanità.
Non bastano le diverse luminarie che luccicano già fin d'ora, con molto anticipo, lungo le nostre strade a saziare l’irresistibile desiderio di felicità e di pienezza di vita che promana dal cuore di ogni uomo. Queste luci intendono esprimere il forte anelito di luce, la sete insaziabile di pace e di gioia che alberga nel cuore di ogni persona...
Vorrei augurarvi, piuttosto che questo tempo di Avvento, con la sua carica di speranza, potesse essere accolto e riconosciuto come una fulgida luce che irrompe nella notte, oltre il buio del mondo, dove le tenebre si fanno sempre più fitte, a causa delle diverse crisi che facilmente constatiamo.
In questo modo, sarà più facile stare vicino ai fratelli più deboli e farci carico delle loro fragilità, aprirci alle necessità e all’accoglienza. Anche là dove tutti pensano che ci sia solo tristezza, aridità e fallimento, pur nelle attuali difficoltà, la speranza cristiana non può venire meno: Dio fa crescere i suoi fiori più belli, anche in mezzo alle pietre più aride. E noi, chiamati per grazia riconoscere i segni di speranza all’interno delle nostre giornate, irradiamo la “buona notizia” che lo Spirito Santo continua a seminare in noi e che è destinata a crescere, pur nelle resistenze del nostro cuore».
Oscar card. Cantoni
Il Signore venne una prima volta, e verrà ancora in futuro. Questa sua parola risuona nel vangelo: «vedrete il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64). La venuta del Signore sarà alla fine dei tempi, ma c’è una venuta che si verifica già ora, prima di quella, ed è attraverso i suoi annunciatori. Della sua Parola, infatti, è piena tutta la terra.
Che cosa deve fare dunque il cristiano? Servirsi del mondo, non farsi schiavo del mondo. Ciò significa avere, ma come se non avesse, possedere, ma come se non possedesse. Così dice, infatti, l’Apostolo Paolo: «Il tempo ormai si è fatto breve: d’ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero; e quelli che godono, come se non godessero appieno... perché passa la scena di questo mondo» (Cfr 1Cor 7,29-32).
Noi dovremmo essere senza preoccupazioni, aspettare tranquilli l’arrivo del Signore. Infatti, direbbe S. Agostino: “che sorta di amore per Cristo sarebbe il temere che egli venga? Fratelli, non ci vergogniamo? Lo amiamo e temiamo che egli venga! Ma lo amiamo davvero o amiamo di più i nostri peccati? Verrà, e quando non lo aspetti. Se ti troverà pronto, non ti nuocerà il fatto di non averne conosciuto in anticipo il momento esatto”.
Chi sarà fiducioso nel Signore non temerà annuncio di condanna. Questa è la giustizia e la verità. O forse perché tu sei ingiusto, il giudice non sarà giusto? Se vogliamo incontrare il giudice misericordioso, proviamo anche noi ad essere misericordiosi prima che egli giunga. Perdoniamo se qualcuno ci ha offeso, doniamo con generosità di quello che abbiamo a disposizione.
Queste sono le offerte più gradite a Dio: la misericordia, l’umiltà, il riconoscimento della grazia di Dio, la pace, la carità. Sono le cose che ci devono caratterizzare e che dobbiamo portare con noi davanti al Signore e allora attenderemo con sicurezza la venuta del giudice il quale «Giudicherà il mondo con giustizia e con verità tutte le genti» (Sal 95,13).
È l’ultima domenica in cui leggiamo il vangelo di Marco che quest’anno ci ha accompagnato con le sue domande: chi è Gesù? Chi è il discepolo che vuole veramente seguirlo?
La risposta finale dell’evangelista, in attesa di mostrarci il volto del Cristo crocifisso e risorto, è questa: “vigilate!”.
Gesù abbandona definitivamente il tempio e in questo capitolo 13 ne annuncia con chiarezza la distruzione e la rovina finale. Non dobbiamo più ormai aspettarci la restaurazione del regno di Davide: “nessuno vi inganni con falsi Messia”! Gesù lo esprime in maniera chiara: “vegliate”!
Bisogna diffidare dei falsi profeti che promettono false speranze. Al contrario, bisogna sapere che la predicazione del vangelo nel mondo intero sarà accompagnata da opposizioni, conflitti e persecuzioni.
Tutto il discorso di Gesù tende verso la consegna finale: “State attenti perché non sapete quando sarà il momento”.
Con la venuta del Figlio dell’uomo la storia raggiunge il suo significato ultimo. In Gesù risorto esplode quel regno di libertà e di giustizia verso il quale è rivota tutta l’intera storia umana.
Alla fine di tutto risuona perciò la parola del Signore: “Vigilate!”. Non conoscendo né il giorno né l’ora siamo invitati ad essere svegli. Gesù, che afferma il pieno potere di Dio sulla storia (secondo la tradizione profetica), riafferma la libertà di Dio che diventa fondamento e stimolo della responsabilità umana.
La vigilanza responsabile esclude sia il fanatismo apocalittico che progetta il futuro giocando su un fantasioso calendario del mondo, sia la superficialità mondana di chi perde di vista il compito e la meta che deve conseguire: quella di un progetto nella storia a misura d’uomo.
La comunità cristiana che attende il Signore diventa “una forza critica” nei confronti di qualsiasi fuga nello “spiritualismo” ma anche di un congelamento della situazione presente come se fosse definitiva.
Gesù mette in guardia la comunità dei discepoli da due atteggiamenti sbagliati degli scribi: la vanità e l’ipocrisia. La prima si manifesta nello sfoggio dell’ampio mantello del rabbi, il “tallit”, nella ricerca del saluto o riverenza nei luoghi frequentati dalla gente, e nell’accaparrarsi i seggi più onorevoli e ambiti nei conviti e nell’assemblea liturgica.
La seconda si rivela nell’ostentare una grande devozione prolungando i tempi di preghiera alla vista di tutti.
Queste critiche impietose di Gesù condannano difetti tipici di uomini che credono di avere una formazione culturale e spirituale superiore e un ruolo sociale che vi corrisponda.
L’episodio della vedova al tempio permette all’evangelista di mettere in risalto ancora una volta la simpatia che Gesù ha per i poveri, per la gente umile e semplice che per questo rimane completamente aperta e disponibile ad un vero rapporto con Dio.
Gesù fa osservare ai suoi discepoli la differenza fra quelli che ostentano libere offerte “pesanti” per il culto rispetto a quella della vedova povera. La donna ha consegnato come sua offerta due spiccioli: il valore di questa offerta, nota Gesù, deriva dal fatto che per mezzo di essa quella donna ha espresso il dono totale di sé, ha attuato, anche secondo l’interpretazione ebraica, il comando dell’amore a Dio con “tutto ciò che aveva per vivere”.
Con questa sentenza sul valore dell’offerta termina l’attività e l’insegnamento di Gesù nel tempio. Egli aveva iniziato contestando il mercato e il traffico che si svolgevano sotto la tutela dei sacerdoti, aveva sconfessato la sicurezza e la boria dei dirigenti di Gerusalemme che nel tempio avevano il simbolo del loro prestigio, scribi e sacerdoti, ora conclude esaltando l’autentico valore religioso del gesto della povera vedova.
Il luogo dell’incontro con Dio non passa attraverso il potere cultuale o istituzionale, ma attraverso il cuore povero e disponibile a Dio.
La questione posta dallo scriba circa il comandamento più importante era della massima attualità per l’ambiente giudaico contemporaneo a Gesù. Ogni buon giudeo era seriamente preoccupato di fare la volontà di Dio espressa nella legge, tanto che, per applicarla nelle minute circostanze della vita e impedirne la trasgressione erano stati elencati dagli esperti molti precetti o comandamenti, grandi e piccoli, positivi e negativi che alla fine raggiungevano il numero di 613.
Perciò i grandi maestri ebraici sentivano l’esigenza di individuare un criterio di unità o un principio fondamentale che riassumesse tutta la legge. Secondo questi maestri (cfr. Hillel) l’amore del prossimo può essere il principio generale che riassume tutta la legge.
La novità del vangelo non consiste dunque nel proporre l’amore come comandamento principale. Gesù risponde allo scriba riportandolo innanzitutto alla professione di fede nel Dio unico (shemà Israel) con cui ogni buon giudeo iniziava la sua giornata. Questo comportava immediatamente un impegno operativo e pratico: l’uomo nella totalità della sua persona ed esistenza è legato a Dio con un patto d’obbedienza, dedizione e fedeltà. Ma Gesù, di sua iniziativa aggiunge un secondo comando, riportando ancora un testo biblico (Lv 19) “ama il prossimo tuo come te stesso”.
La novità evangelica non consiste però nell’aver allargato il comandamento dell’amore a Dio anche al prossimo e nemmeno nell’intima connessione fra i due comandamenti: l’amore di Dio si esprime e si attua nell’amore del prossimo.
La novità del vangelo, il lieto annuncio, si ha nella esclamazione finale di Gesù: “il regno di Dio è vicino”. Si tratta della nuova possibilità offerta all’uomo, qui ed ora, dell’incontro con Colui che rende visibile e possibile l’amore di Dio.
Il racconto dell’incontro del cieco Bartimeo con Gesù è un po’ il cammino che ciascuno di noi deve percorrere per arrivare ad una fede e ad una vita cristiana più autentica.
Basta guardare il personaggio che, da una parte è precisato, ma che è anche sufficientemente anonimo (Bar-timeo = figlio di Timeo [già detto] e che può essere ciascuno di noi).
Viene sottolineata la sua sofferenza: non vedere Cristo che è la via... ed essere “zittito” dagli altri. Ma la sua insistenza gli vale l’incontro con Gesù e la guarigione.
Gesù “chiama” il cieco come chiama te, perché il tuo desiderio profondo di vedere la luce è lo stesso desiderio di Cristo che vuole guarirti. Tu sei un chiamato: devi avere coraggio e fiducia.
Occorre che tu faccia una scelta di campo per Cristo: devi schierarti dalla sua parte e non fermarti più a guardare indietro, non attaccarti più alle sicurezze umane e non cercare nelle cose del mondo la risposta ai problemi della vita.
La conversione è sempre un cammino. È andare verso la luce; è ritornare a casa; è ritrovare il calore dell’amicizia e della comunione; è un “vederci chiaro”.
“Cosa vuoi che ti faccia?” chiede Gesù al cieco e domanda una fiducia profonda in Lui e nella sua possibilità di salvezza. Il cieco lo riconosce come maestro (rabbunì) guida che illumina i suoi passi.
“La tua fede ti ha salvato: vai”. La fede è la luce per interpretare i fatti della storia e quelli della tua vita, piccoli o grandi che siano.
La conclusione è che il cieco-guarito SEGUE Gesù lungo la via della CROCE (Gesù sta andando a Gerusalemme a dare la vita). Questo è dunque tutto un discorso sul “discepolo” e sulle modalità di seguire Gesù. E mentre gli apostoli stanno litigando tra loro su “chi è il più grande” (mostrando coi fatti di voler seguire Gesù controvoglia), Bartimeo sei tu che provi a seguire Gesù nel suo cammino.
Data la figura meschina che ci fanno figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni (Mc 10,35-45), due importanti personaggi della prima Chiesa, questo brano ha tutte le probabilità di essere veritiero e fondato sul ricordo delle beghe e dell’arrivismo dei dodici apostoli fino agli ultimi giorni precedenti l’arresto di Gesù.
Egli ha appena annunciato i successivi momenti di una passione che culminerà nella morte, e i due fratelli, con una disinvoltura che a dir poco irrita gli altri dieci, chiedono di sedere uno a destra e uno a sinistra nel regno glorioso di Cristo. In altre parole essi domandano di avere i primi posti, di essere i primi ministri nel regno instaurato dal Messia glorioso.
La risposta di Gesù è molto chiara: innanzitutto egli precisa quale è lo statuto del suo regno nel quale l’unica condizione per l’avanzamento è la partecipazione al suo destino che è segnato dall’umiliazione, dalla sofferenza, dalla morte violenta (questo sottolineano le immagini del calice bevuto fino “alla feccia” e di un battesimo che conduce all’annientamento).
Gesù ha poi l’occasione di precisare il significato e il valore dei ruoli nella comunità cristiana: gli altri dieci discepoli non sono migliori dei due fratelli più intraprendenti; anch’essi vivono in funzione della carriera e delle promozioni, mentre Gesù presenta un nuovo modello di autorità per la comunità cristiana.
Egli esclude anzitutto il modello di autorità che si organizza come potere, poi propone un tipo di autorità che è l’anti-potere dove il più grande è il servo e lo schiavo (un’immagine sociale inequivocabile per il suo tempo e per l’ambiente antico). Chi è veramente senza ruolo e senza prestigio e davvero serve gli altri, questi esercita l’autorità. Il “Figlio dell’uomo” infatti è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per tutti.
Il brano di Vangelo di questa domenica (Mc 10,17-30) può essere collocato sotto il titolo “la via verso la vita per il discepolo di Gesù”; e l’incontro col “giovane ricco” che se ne va triste dà già una risposta a Pietro che chiede: “noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa ne otterremo?”.
Quali sono dunque le condizioni essenziali per essere discepoli e quale è il rapporto tra il possesso dei beni e la vita eterna? Problemi che sono stati molto sentiti nelle prime comunità cristiane (vedi anche Mt e Lc).
Si presenta un tale che trova Gesù e, prostrandosi davanti a lui, lo saluta con una formula inconsueta “Cosa devo fare per avere...”.
Gesù nella sua risposta sembra citare soltanto i comandamenti che riguardano i doveri verso il prossimo perché la risposta della tradizione evangelica è nota: il modo concreto di amare Dio e di essergli fedeli è quello di amare ed essere fedeli al nostro prossimo.
Se hai osservato “tutti” i comandamenti Gesù ora ti propone un “test” definitivo: “Và, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi (naturalmente portando la croce)”. Chi ha osservato i comandamenti è un buon giudeo, ma non è ancora entrato in comunione con Gesù, non è veramente diventato cristiano. Il segno distintivo dell’identità del discepolo è di “seguire Gesù”, cioè di coinvolgersi con il suo destino, con il suo modo di amare e di essere fedele all’altro uomo fino alla testimonianza suprema della croce.
Quanto è difficile a quanti hanno ricchezze...
E come è possibile questo? (Cfr. la similitudine del cammello e della cruna dell’ago). In una prospettiva umana tutto questo può sembrare assurdo e impossibile, ma non lo è per Dio.
Diventare veri discepoli di Gesù ed entrare nel Regno non è frutto dell’abilità o degli sforzi umani, ma è un dono della potenza salvifica di Dio. L’uomo a volte si sente tanto ricco e arrogante (e quindi lontano dal Regno), da pretendere di condizionare l’amore gratuito e la libertà di Dio con i suoi meriti o con le sue virtù.
Il tema centrale della controversia con i farisei (Mc 10,2-12) verte sulla liceità del ripudio della moglie. Per i Giudei ortodossi non era in
discussione la legittimità del divorzio, ma la sua modalità, regolata dalle prescrizioni di Mosè che si preoccupavano di tutelare la posizione delladonna ripudiata, rivendicandone la piena autonomia e libertà nei confronti dell’ex-marito.
La risposta di Gesù trasferisce la questione dal piano normativo giuridico a quello religioso. Alle raf nate sottigliezze casistiche dei pii giudei che tentano di far coincidere la volontà di Dio con i propri desideri e interessi, Gesù oppone una nuova ottica: non c’è legge che possa far nascere l’amore o risuscitarlo dove è morto.
Soltanto la fonte originaria dell’amore, il gesto creatore di Dio, come è espresso in Genesi 1,27 e 2,24 (cioè la comunità dell’uomo e della donna in un solo essere vivente fatto di carne ed ossa) può realizzare questa comunione. Questo può essere rovinato dalla pigrizia o dalla paura umana che inaridisce la fonte dell’amore nel centro stesso della personalità, cioè nel cuore.
Non solo il divorzio, sia voluto dall’uomo come dalla donna, è contro il progetto di Dio, ma un nuovo matrimonio sarebbe come un adulterio, perché permane sempre e comunque l’impegno precedentemente preso. Nel menzionare anche il caso della donna che prende l’iniziativa del divorzio, Marco attualizza la sentenza di Gesù per le comunità cristiane dell’ambiente greco-romano dove questo caso poteva presentarsi con più frequenza.
Si tratta di accogliere con un cuore libero la Parola di Gesù e di conseguenza il Regno di Dio come farebbe un bambino che non pretende di avere conquistato con la forza quello che riceve, ma sa di dipendere, perché il Regno di Dio è un dono e come tale va accolto dal Signore: come un regalo fatto a noi da lui stesso.
Il foglietto settimanale distribuito nelle chiese della pastorale di Mandello con gli annunci e con la "parola della settimana" va in pausa per i mesi estivi.
Ci ritroveremo nelle chiese e su queste pagine nel mese di settembre 2024.
A tutti auguriamo una piacevole e ristoratrice pausa estiva.
La realtà del regno di Dio può essere confrontata con ciò che avviene quando un uomo ha gettato il seme e poi continua la sua vita ordinaria fino alla mietitura (Mac 4,26-34). Punto culminante è lo straordinario risultato a prescindere dall'impegno del seminatore: dorma o vegli il seme cresce da solo.
Avviato il processo dell'annuncio del vangelo, esso giungerà sicuramente al suo compimento per la forza irresistibile e misteriosa di Dio che lo sostiene. Certo la parabola non è un invito alla pigrizia, ma è una proposta di speranza che si fonda sulla promessa efficace di Dio: se il seme è gettato, è garantito il raccolto.
Nella seconda parabola si mostra il contrasto tra la piccolezza del seme e la grandezza della pianta, fra l'inizio insignificante e il termine meraviglioso.
E' ancora un invito alla speranza e alla fiducia che si fondano non sui calcoli della probabilità o sulle previsioni del futuro, ma sulla fedeltà e potenza di Dio che si è manifestata nella storia. Nonostante gli umili inizi dell'azione del Signore per rendere manifesta e operante la sua giustizia, tenendo conto della liberalità degli uomini che possono opporre un rifiuto (come nei riguardi della persona e dell'opera di Gesù), la manifestazione finale condurrà tutta la storia umana della piena giustizia e libertà di Dio.
La stessa conoscenza e sequela di Gesù è un dono del Signore a cui si accede mediante la fede e la "parabola" è Gesù stesso che, con la sua presenza tra noi, rivela nella maniera più semplice il volto di Dio e il suo progetto. Nello stesso tempo diventa l'enigma più oscuro per chi non è disposto a cambiare i suoi schemi su Dio e sulla sua azione nel mondo.
Solo il discepolo che condivide totalmente il destino di Gesù può superare lo scandalo di un Dio che si rivela nel quotidiano come il gesto di un seminatore che con fiducia attende che il grano germogli e maturi nella crescita prodigiosa di un piccolo seme.
L'incontro fra Gesù e i suoi parenti, che Marco riporta al termine del capitolo 3, illustra in modo plastico e realistico questa constatazione: Gesù si sente vicino e familiare con tutti coloro che si lasciano coinvolgere nel suo stesso progetto. Gesù non ha fondato una dinastia religiosa; il grado di parentela non è un titolo per far parte della nuova comunità, ma unicamente l'impegno totale nello stesso progetto di Dio che comporta fedeltà fino alla fine.
Se i parenti cercano di neutralizzare l'azione di Gesù in nome della normalità e dell'equilibrio, gli scribi più raffinati si trincerano dietro il loro sistema ortodosso: Gesù è posseduto da satana ed è suo complice. Nella risposta di Gesù si mostra come invece vinca il più forte e questo comporta la liberazione dalla potenza demoniaca nel mondo.
L'intervento salvatore di Dio viene descritto come quello del combattente vittorioso (Cfr. Is 49, 24-25) perchè Gesù rende presente nei suoi gesti e nelle sue parole la vittoria di Dio nel mondo.
Il rifiuto di questa azione di Dio in Gesù, attribuendone l'origine a satana, è un insulto alla potenza di Dio, un peccato contro lo Spirito, potenza divina che opera in Cristo. Il peccato contro lo Spirito è dunque irremissibile non perchè più grave di tutti gli altri, ma perchè include in sé il rifiuto del perdono, escludendo l'atteggiamento di fede e di conversione.
L'arroganza e l'autosufficienza del potere non sono mai così funeste come quando cercano di evitare il confronto con Dio e la sua azione nella storia e si rifugiano dietro l'alibi di coprire i segni di Dio con il sospetto dell'irrazionalità, della pazzia e delle forze malvage.
Il racconto della istituzione dell'Eucarestia secondo il vangelo di Marco ci riporta ad un contesto di rifiuto (da parte dei farisei, di Pietro, di Giuda).
Tre sono le componenti fondamentali:
La croce (Cristo spezza il pane e distribuisce il calice: simbolismo del pane spezzato e del vino versato per molti).
L'alleanza (nuova, tra Dio e l'uomo)
La rilettura alla luce di Isaia 52-53: il servo di Dio ucciso in favore del popolo.
C'è la sottolineatura del sangue versato per molti (= per tutti), che è la massima donazione del Cristo.
Bisogna rimarcare:
L'amore ostinato di Gesù (dare la vita per coloro dai quali è rifiutato). Cristo si dà anche per coloro che non lo meritano.
Il contesto di condivisione (condivisione di un progetto di vita: esser pronti al "dati per - rifiutati da").
La tensione verso il futuro (l'incontro con il Cristo eucaristico anticipa nella storia il definitivo incontro con Lui).
per eliminare la tristezza del Signore che se ne va (perchè rimane sempre presente)
per vivere con grande nostalgia dello straordinario incontro futuro (il Cristo "presente-assente": lo incontro ma devo ancora incontrarlo)
Infine il tradimento di Giuda (e il rinnegamento di Pietro) (NB. la presenza del tradimento anche in Paolo).
Il tradimento di Cristo è sempre possibile (= tradire la logica eucaristica)
nessuno ha il diritto di andarsene (= scandalizzarsi perchè altri tradiscono o rinnegano)
L'amore di Dio vince tutto (dato per - rifiutato da).
La comunità dei discepoli viene convocata (Mt 28, 16-20) non per riconoscere Gesù risorto, ma per ascoltarne la rivelazione definitiva. Già il luogo è significativo: in Galilea, sul monte. La portata di questa indicazione va oltre il carattere puramente geografico per assumere un valore simbolico. In Galilea er risuonata la prima parela di annuncio del Regno di Dio e sul monte Gesù aveva insegnato una nuova dottrina di vita e ora, di nuovo sul monte, risuona la sua Parola di Signore glorioso.
I destinatari sono i discepoli (come noi) che si prostrano a luin in adorazione anche se alcuni hanno dubbi ed esitazioni... Si evidenzia la situazione della comunità cristiana che si domanda: cosa significa esattamente credere che Gesù è risorto? Quali conseguenze derivano per la nostra esistenza? Come deve essere la nuova comunità di chi crede? Che rapporto c'è tra Gesù di Nazareth e il Signore risorto? Come si può essere obbedienti al suo insegnamento?
Quando l'evangelista scrive, il fatto della risurrezione di Cristo è già lontano nel tempo, ma è sempre attuale il problema del suo significato.
Ecco perchè Gesù dichiara che Dio gli ha dato un potere illimitato e universale e che comanda a noi di impegnarci nella missione nel mondo assicurandoci la sua presenza perenne.
Per essere salvi bisogna mettersi al servizio di Cristo, entrare in rapporto con la sua persona perchè egli è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini. Si tratta però di una relazione non individuale ma comunitaria: ecco il perchè del battesimo e dell'insegnamento di tutto quello che Gesù ha comandato.
La sua rivelazione "trinitaria" si riassume nel comandamento dell'amore e la prassi proposta è quella di fare per gli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Consiste nel liberarci dalle strettoie di una religione soffocante per fare positivamente del bene al prossimo. Un "amore fattivo".
La rivelazione di Gesù non si è chiusa con la sua "partenza" e la fine del suo ministero terreno, essa continua con l'effusione dello Spirito Santo che viene a "completare" la sua opera di salvezza nel mondo.
Vi sono come "due tappe" del mistero della rivelazione: durante il suo ministero terreno Gesù ha rivelato completamente il Padre; ha fatto intendere al mondo tutto quello che il Padre gli ha detto e si è manifestato come il "Figlio", il salvatore. Eppure, al termine di questa prima tappa, Gesù non è ancora per i suoi discepoli che uno sconosciuto (cfr. Gv 14,9). Essi non hanno riconosciuto in lui la presenza del Padre e ci vorrà un secondo momento per scoprire la realtà di quello che hanno visto e udito, ma senza discernere e comprendere appieno.
Gesù si è espresso "in figure", cioè in un linguaggio misterioso e simbolico e, perchè il dono della rivelazione si compia, occorrerà la presenza e la potenza dello Spirito Santo.
La parola di Gesù, di fatto, non avrà il suo effetto fin quando non diventerà luce e vita nel cuore dei credenti e questo compimento è opera dello Spirito. La sua venuta sarà come il sigillo apposto alla missione del Figlio: manifesterà l'autenticità della sua parola rivelatrice e la fecondità del suo sacrificio a gloria del Padre.
L'opera dello Spirito non si limiterà ad illuminare l'intelligenza dei discepoli, egli sarà un altro "Paraclito" che prolunga, rinnova, attualizza e approfondisce nei loro cuori la presenza di Gesù e, con la presenza del Figlio, la presenza del Padre
Lo Spirito si espande senza limiti, apre il cuore dei credenti alla verità tutta intera; svela la gloria del Figlio, nella quale il Padre si è rivelato. Egli appare come lo Spirito di verità, vale a dire come lo Spirito attraverso il quale si scopre la verità che altri non è che Gesù nella sua verità senza veli.
Tutti dobbiamo essere in qualche modo missionari per annunciare la Parola di Dio!
Anche se il vangelo di Marco termina con il silenzio delle donne (16,8) perchè forse la sua ultima pagina è andata perduta; un discepolo ha voluto colmare questa lacuna (rispetto agli altri evangelisti) e ha uniformato Marco con la tradizione comune facendo un rapido sommario dei racconti di apparizione che si trovano negli altri vangeli, soprattutto il Luca e in Giovanni, aggiungendo l'incarico di missione degli apostoli e un breve racconto dell'ascensione di Gesù.
Da questa aggiunta emerge la preoccupazione e gli interrogativi che la prima comunità cristiana si pone: come deve esprimersi la fede di chi non ha visto Gesù risorto? Quale è il riferimento alla testimonianza dei primi discepoli? Come affrontare il tema del male che continua ad imperversare nel mondo nonostante la vittoria di Cristo sulla morte, nell'attesa del suo ritorno?
Il racconto della missione universale data ai discepoli (dotati di particolari poteri carismatici) concentra l'attenzione sulla vita della comunità e del suo impegno nel mondo: Gesù risorto rimane ora presente nella comunità cristiana e manifesta la sua potenza di salvezza per mezzo della sua azione. L'ascensione al cielo (raccontata secondo gli schemi biblici di glorificazione) rivela la piena regalità di Cristo che si manifesta e si estende al mondo per la parola dei suoi inviati.
Anche se questa finale del vangelo non è di Marco, tuttavia in essa viene ripreso un tema che anche lui potrebbe sottoscrivere: Gesù risorto fonda la fede della comunità cristiana e per mezzo di essa continua l'annuncio e la manifestazione del regno di Dio (cfr. 3,13-15; 6,7-13).
La prova d'amore per Gesù consiste nella fedeltà ad "osservare il suo comandamento", la sua Parola. Questo amore non deve tuttavia identificarsi con la semplice osservanza esteriore dei comandamenti perchè Gesù si attende da no un accordo profondo della volontà, una comunione dello spirito e del cuore, una fedeltà amante.
I termini "comandamenti", "precetti", "ordini" usati per tradurre le parole greche del Vangelo non ne esprimono tutta la ricchezza teologica. Sarebbe dunqu falso ridurre il comandamento (o i comandamenti) di Cristo alla semplice prescrizione di regole giuridiche. Sarebbe meglio tradurle come "insegnamento" o "mandato" oppure "via".
Gesù ha aperto ai suoi discepoli una "via" nuova; ha rivelato loro un mondo, comunicato una vita, indicato un'opera, confidato un "progetto". Il comandamento indica tutto questo: l'autenticità dell'amore per Gesù si manifesterà dunque nella sollecitudine a "conservare" come un tesoro, come un profumo prezioso la volontà di seguire come discepoli il Signore.
Il "comandamento" chiave è quello dell'amore fraterno. Questo è il testamento di Gesù (vedi la lavanda dei piedi) perchè Egli chiede di impegnarsi sulla via da lui tracciata. E' lui che lo promulga e metterlo in pratica sarà il segno dal quale tutti riconosceranno la comunità dei discepoli. Più ancora: esso sarà il sigillo della sua presenza perchè chiede a noi non solo di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amati, ma anche di amarci con quello stesso amore che ha avuto per noi.
Un legame essenziale collega dunque l'amore fraterno alla fede in Gesù. Essi sono così inseparabili tra loro, come in Gesù lo sono stati l'amore per il Padre e l'amore per il mondo. Infine il comandamento è qualificato come "nuovo", non perchè non sia già presente nell'Antico Testamento, ma perchè collegato con la "nuova alleanza" che ha la sua massima espressione nella comunione eucaristica.
Nel racconto della "vite vera" vi è certamente un polemica di Gesù nei confronti delle proposte ellenistiche che presentavano la vite come una variante dell'albero della vita e che avevano un grande fascino sui contemporanei dell'evangelista Giovanni che invece intende ricordare che solo Gesù, e non altri, è in grado di offrirti quella vita vera che vai cercando.
Ma il riferimento più profondo va trovato in rapporto alla tradizione ebraico-cristiana che ha le sue radici nel "canto della vigna" di Isaia 5, 1-7 nel quale si racconta la storia monotona del popolo di Israele in cui sembra proprio che si mostri il contrasto stridente fra l'amore di Dio e l'incapacità del popolo eletto di corrispondervi.
La pazienza di Dio ha un limite e questo è il tempo del giudizio, perchè se da una parte c'è la cura assidua, amorevole e paziente di Dio, dall'altra c'è un'ostinata sterilità: Dio si aspetta buoni frutti e ne resta deluso. Dio ha mandato perfino il proprio Figlio, lo hanno ucciso, la vigna passerà ad altri!
In questo brano però la vite non è anzitutto il popolo di Israele, ma il Signore stesso. Questa vite è ora all'altezza delle attese di Dio perchè Gesù "è" la vite e non è soltanto il grande dono di Dio, ma anche la risposta dell'uomo. Sulla croce c'è un "Dio che muore per noi" (dono) e insieme un "uomo che muore per Dio" (risposta). Il Padre ha finalmente trovato il Gesù la docilità e l'amore che si attendeva.
Non più quindi Israele, ma il Cristo e i discepoli che rimangono con lui sono il vero popolo di Dio. E anche se la comunità che rimane in Gesù è protetta, salvata e feconda, c'è sempre il tema della "prova" e la possibilità della "potatura". Criterio di giudizio saranno i frutti e il "rimanere in Cristo": comprendere cioè che la propria consistenza si trova nell'obbedienza, non nell'autonomia e che questa è la legge fondamentale della Chiesa. Essere uniti al Cristo come il tralcio alla vite significa essere nell'amore trinitario che si allarga all'amore fraterno. Perchè, amato, l'uome esiste, ed è amando che si afferma.
Gesù è il "buon / bel" pastore (tob) di cui abbiamo spesso parlato, ma sarebbe mglio tradurre il "vero"pastore, cioè colui che realizza tutte le qualità del pastore.
Si rivela qui il mistero di Gesù che, a differenza dei capi religiosi ebraici (soprattutto i farisei) è il vero pastore che entra per la porta e che le pecore conoscono. Le affermazioni qui sono polemiche, ma perchè Gesù può dirsi il "vero pastore"? Quali sono gli atteggiamenti che lo rivelano tale? L'evangelista Giovanni risponde che Gesù è il vero pastore perchè, a differenza del mercenario, dà la vita per le pecore e perchè le conosce ed è da esse conosciuto.
Si precisa poi che l'amore del Cristo pastore non ha confini e non fa distinzioni perchè Giudei e Pagani sono conivolti nello stesso amore. Tutti gli uomini devono ritrovarsi in un solo gregge attorno ad un solo pastore.
Il pastore dà la vita per le sue pecore (questo è un dato insolito) e Giovanni sottolinea la duplice dimensione del dono di Cristo che è insieme libertà ed obbedienza: Gesù dà la vita da sè stesso, in piena libertà; Gesù dà la vita perchè questa è la volontà del Padre. E' uno stranoc concetto di lebertà, ma il lettore del quarto vangelo deve essere ormai in grado di comprenderlo: per Gesù la libertà (ma potremmo anche dire la sua esistenza, la sua personalità, la sua originalità) si raggiunge nell'obbedienza, non nel prendere le distanze dalla volontà del Padre. Sta nell'assumere questa volontà in tutto e per tutto, perchè libertà e obbedienza al Padre coincidono. La morte di Cristo salva perchè libera (dunque è un gesto d'amore, è un dono) e perchè è obbediente.
Nell'obbedienza di Gesù non c'è solo l'aspetto di dipendenza, di disponibilità e di amore che lo pongono al servizio di Dio (contrariamente al peccato che è pretesa di autonomia), ma c'è la ragione più profonda che rimanda a tutta la Trinità: il Figlio è colui che riceve tutto dal Padre ed è totalmente aperto a Lui e, anche nel mondo, continua lo stesso atteggiamento in totale conformità. E' l'obbedienza che lo costituisce Figlio e lo fa amato dal Padre.
L'intenzione dell'evangelista Luca nel raccontare l'apparizione del Cristo risorto ai suoi discepoli è certamente di ordine "apologetico": dopo il sepolcro vuoto, l'apparizione degli angeli alle donne, l'apparizione ai due discepoli di Emmaus, quella a Pietro e, infine, ai discepoli riuniti con i quali mangia; Gesù si mostra come veramente risorto e la sua persona è reale e concreta. Il Risorto ha un vero corpo!
Al di là di ogni interrogativo possibile e legittimo, Luca insiste nell'affermare un reale passaggio dalla morte alla vita per l'intervento di Dio e questa vita (che viene da Dio) afferra l'uomo in tutta la sua consistenza e globalità.
E' certo che il Risorto però lo si coglie solo nella fede e, nonostante la concretezza della presenza di Gesù, la sua risurrezione rimane un mistero di Dio, fuori dell'esperienza consueta, perchè si tratta di una vita diversa, che non conosciamo, di fronte alla quale ogni nostro linguaggio è parziale e insufficiente.
Occorre schiudere la mente a comprendere le Scritture perchè senza questa "intelligenza" la storia dell'uomo, come quella di Gesù, restano oscure. Come altrimenti guardare, ad esempio, la morte, la sofferenza, l'onestà derisa, il peccato che sempre ci accompagna? Senza l'intelligenza delle Scritture l'uomo è cieco. La prima comunità cristiana (che Luca presenta come un modello per la Chiesa di ogni tempo) è una comunità che "persevera nella istruzione degli Apostoli" (At 2,42), cioè nella spiegazione delle Scritture e delle parole di Gesù: si tratta di un ascolto assiduo e sistematico della Parola, per poi interpretare alla sua luce i fatti che accadono e operare di conseguenza.
Il centro del messaggio della pagina del Vangelo di oggi riguarda dunque la Croce, la Risurrezione e l'Annuncio.
L'Annuncio deve avvenire nel nome di Gesù e il suo contenuto è la conversione e il perdono dei peccati. Conversione che è innanzi tutto quella della "mente": cambiare il modo di pensare Dio e il suo atteggiamento verso l'uomo. Predicare il perdono dei peccati significa affermare che l'amore di Dio è più grande del nostro male.
IL TEMPO DI PASQUA
La celebrazione della Pasqua continua nel Tempo Pasquale. Il tempo di Pasqua in origine era chiamato anche "lætissimus spatium", cioè il tempo più felice e bello da vivere. Il tempo Pasquale ha la durata di cinquanta giorni, dalla domenica di Pasqua fino a Pentecoste: "I cinquanta giorni che si succedono dalla domenica di Risurrezione alla domenica di Pentecoste si celebrano nell'esultanza e nella gioia come un solo giorno di festa, anzi, come "la grande domenica". Sono i giorni nei quali, in modo del tutto speciale, si canta l'Alleluia".
I testi liturgici del tempo Pasquale sottolineano quindi l'unità teologica della morte, risurrezione, ascensione al cielo di Cristo Signore e il dono dello Spirito Santo (cfr. Gv 19,30; 20, 19-23). La Chiesa sperimenta nella quotidianità la "Pasqua dello Spirito" in modo particolare nella celebrazione del Battesimo e dell'Eucarestia. E' quindi questo il tempo privilegiato per riconoscere la presenza dello Spirito del Risorto nella Chiesa e per accogliere in pienezza i suoi doni.
I vangeli sono stati definiti "storie della passione di Gesù con una lunga introduzione particolareggiata", e questo vale soprattutto per il vangelo di Marco. Lo spazio stesso dedicato al racconto della passione (che comprende pochi giorni) rimane sproporzionato rispetto al resto del vangelo. Ma proprio l'intera vicenda di Gesù si focalizza su questo momento vertice.
Qui ci sono i motivi principali che hanno guidato la narrazione dell'intero vangelo nei capitoli precedenti: chi è veramente Gesù? Quale è l'atteggiamento dei discepoli?
Il Cristo, attraverso gli avvenimenti della passione, appare come il Figlio dell'uomo perseguitato, prototipo di tutti i perseguitati e oppressi della storia. In tale situazione egli rimane fedele al progetto di Dio, accolto liberamente e con piena fiducia. alla fine del dramma, l'ufficiale che assiste alla sua morte potrà esclamare: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio".
Al sommo della sua solitudine mortale Gesù rivela la sua vera identità.
Al centro c'è dunque Gesù! Non vanno cercati atteggiamenti emotivi o pietistici, introspezioni psicologiche o curiosità particolari. La storia di Gesù è riletta nella linea biblica del servo sofferente. Che senso può avere una vicenda tanto assurda? Può essere la rivelazione definitiva di Dio?
L'evangelista non fa la cronaca di un'esecuzione capitale, ma vuole trasmettere un messaggio per i credenti: Gesù avanza verso la passione con il gruppo dei discepoli, ma progressivamente si trova abbandonato e solo, fino a quando, sulla croce, sarà circondato soltanto dagli avversari che lo insultano.
La fedeltà di Gesù nell'umiliazione e nella morte non è solo la rivelazione del nuovo volto di Dio, ma anche il modello e il criterio per l'impegno storico di ogni credente.
Nel vangelo di Giovanni alcuni Greci esprimono il desiderio di vedere Gesù e questo offre al Cristo l'occasione di un breve discorso intorno al significato della sua morte.
Viene sottolineato innanzi tutto il significato universale della morte del Signore: i Greci non sono qui per caso, essi sono un anticipo di questa universalità. Sono anche il segno premonitore del giudizio: i giudei si ostinano a non comprendere e rifiutano il Cristo, mentre i greci chiedono di conoscerlo.
I Greci non sono degli intrusi, ma l'anticipo della glorificazione di Gesù, la loro non è curiosità che si esaurisce in un puro vedere, ma è un desiderio di conoscere e di credere (tale è in Giovanni il ricco senso del verbo "vedere": andare oltre le apparenze per raggiungere il mistero che esse nascondono).
Gesù sembra ignorare la loro domanda, ma in realtà va al cuore della domanda stessa: Gesù è il chicco di grano che muore per portare frutto e così rivela la strada del discepolo. E' quello che i Greci vogliono sapere. Guardando la croce si comprende chi è Gesù e si trova salvezza. Il verbo "innalzare" esprime proprio questa comunione del Figlio con il Padre nel fare la sua volontà.
E' anche l'ora di Gesù. L'ora è venuta e questo è il tempo di mostrare come l'abbassamento della croce sia in realtà il vero innalzamento del Figlio dell'uomo. La croce è il frutto di una consapevole decisione, un atto di donazione liberamente accettato. La Croce è già glorificazione! Essa esprime l'inizio di un movimento ascensionale che va oltre la Croce stessa e giunge al Padre.
Croce, risurrezione, ascensione sono acocmunate nel medesimo movimento di ascensione da terra. Nella Croce Gesù attua l'estrema rinuncia del voler vivere in autonomia, e in questo volontario annientamento raggiunge la perfetta unità con il Padre. La Croce costruisce la comunità perchè le parole "attirerò tutti a me" significano che da una parte Gesù chiama i suoi a vivere come Lui, ma anche che attirerà tutti gli uomini dietro a sè nella logica della Croce.
Il contesto dominante all'interno del quale si svolge il motivo della "nuova nascita" del cristiano (siamo nel discorso di Gesù a Nicodemo) è quello della FEDE.
Ma fede in che cosa? In Cristo, senza dubbio, cioè in quell'atto di amore rivelato in tutta la sua profondità sulla croce. Si deve credere nel Figlio INNALZATO, nell'Unigenito dato.
Così la rinascita del discepolo è il passaggio dalla radicale incapacità dell'uomo di amare (e di amare in quel modo), ad una nuova possibilità di amare. La meraviglia del cristiano in ogni tempo (che si fa gratitudine, imitazione, salvezza) è espressa nel v.16: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perchè chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna".
L'innalzamento di Gesù ha un duplice significato e allude sia alla croce che alla resurrezione e ascensione al Padre. Per l'evangelista Giovanni non occorre solo credere in Gesù sulla croce come dono, ma credere che la croce stessa è gloria, è vittoria. Qui sta il punto cruciale. Da questo dipende anche il giudizio: Dio ha mandato il Figlio per salvare il mondo, non per giudicarlo. Ma ciò non toglie che la presenza del dono determini una crisi: il dono del Padre può essere accolto o rifiutato.
E' l'uomo stesso con il proprio atteggiamento, con il suo rifiuto o la sua accettazione dell'amore apparso in Cristo che si costruisce dentro di sé la salvezza o la condanna, la luce o la tenebra.
La fede dunque opera un giudizio, ed è l'uomo stesso che si giudica; chi opera il male finisce necessariamente per odiare la luce e non vuole che le sue opere cattive vengano smascherate.
Chi invece "FA LA VERITA'" (che non è solo una nozione da conoscere e neppure una realtà, seppur divina, da realizzare), questi sa davvero comprendere il piano di salvezza di Dio che va accolto e costruito
Nell'episodio della "purificazione del Tempio", presentato dal Vangelo di Giovanni alla nostra meditazione questa domenica, Gesù si confronta con il "privilegio" più sacro di Israele e lo dichiara decaduto. Qui Gesù urta contro l'opposizione e l'incredulità dei giudei e l'episodio viene collocato dall'evangelista (a differenza degli altri) all'inizio della sua missione come "segno" fondamentale per capire la sua vita.
Il gesto di Gesù si colloca nel solco della tradizione biblica legata soprattutto ai profeti (Malachia, Zaccaria, Geremia...) ed ha un chiaro senso messianico; e anche se Gesù non soddisfa la domanda sul segno che i giudei vogliono vedere, perché non è una domanda sincera (gli chiedono un segno e sembrerebbero disposti, qualora i segni ci fossero, a credere; ma in realtà non è così: più avanti rifiuteranno Gesù proprio perchè ha compiuto i "segni" [cfr. Gv 11,47]).
C'è un ulteriore aspetto: il vero tempio è la comunità (lo ricordavano anche gli Esseni di Qumran quando dicevano che il vero culto è la vita santa della comunità, la preghiera e l'osservanza della legge e volevano una restaurazione del tempio perchè profanato...)
Con Gesù però il tempio viene sostituito non perchè profanato, ma perchè è arrivato il Messia e con lui la nuova alleanza con Dio. Di più, Cristo è il vero tempio, il luogo unico in cui si manifesta la salvezza di Dio per noi.
Con ancor maggior precisione, Giovanni indica il momento in cui l'antico tempio cede il passo al nuovo: la morte e risurrezione. Il tempio è il Cristo risorto. Egli è il vero tempio, non anzitutto la comunità o il credente. Alla luce della risurrezione, dello Spirito e della stessa esperienza ecclesiale il discepolo comprende le parole della Scrittura e le stesse parole di Gesù.
Le intenzioni dell'evangelista Marco nel raccontare la trasfigurazione di Gesù sono molteplici: intanto la scelta dei tre discepoli (quelli presenti nell'orto degli ulivi) che conferma il riferimento alla passione e alla sofferenza del Cristo. E' una grande opportunità che pone i tre all'interno del gruppo dei Dodici come portatori speciali della rivelazione di Gesù.
L'accento posto su Elia sottolinea che Gesù inaugura la fine dei tempi e viene presentato Pietro come persona che non capisce perchè esprime il desiderio (del tutto comprensibile) di conservare in modo durevole questa rivelazione della gloria celeste senza passare attraverso la croce nel voler seguire Gesù.
Continua quindi l'opposizione all'idea della passione (già espressa da Pietro in precedenza) e proprio su questo sfondo acquista una colorazione specifica l'appello divino di ascoltare la voce del Figlio.
La gloria del Figlio di Dio che viene rivelata appartiene ad un altro mondo e il discepolo deve attenderla e sperare in essa senza lasciarsi distogliere dal suo compito più importante che è quello di "seguire".
Pietro non è descritto come il rappresentante di una comunità che si lamenta della croce, ma simboleggia le proteste di tutti noi, dei cristiani, contro la sofferenza che ci viene incontro come qualcosa di specifico e di estraneo e ci vuole sottomettere.
La rivelazione sul monte si trasforma, dunque, in un grande appello a seguire Gesù umile, povero, casto, carico della croce.
In Cristo siamo stati tentati e in lui abbiamo vinto il diavolo "Ascolta, o Dio, il mio grido, sii attento alla mia preghiera" (Sal 60,1). Chi è colui che parla? Sembrerebbe una persona sola. Ma osserva bene se si tratta davvero di una persona sola. Dice infatti: "Dai confini della terra io t'invoco; mentre il mio cuore è angosciato" (Sal 60,2).
Dunque non si tratta già di un solo individuo: ma, in tanto sembra uno, in quanto uno solo è Cristo, di cui noi tutti siamo membra. Una persona sola, infatti, come potrebbe gridare dai confini della terra? E' invece questo possesso di Cristo, quest'eredità di Cristo, questo corpo di Cristo, quest'unica Chiesa di Cristo, che tutti noi formiamo e siamo, che grida dai confini della terra.
E che cosa grida? "Ascolta, o Dio, il mio grido, sii attento alla mia preghiera; dai confini della terra io t'invoco". ....
Il tempo di Quaresima è tempo propizio per correggere quegli accordi stonati della nostra vita cristiana e accogliere la gioiosa notiza della Pasqua del Signore. La Chiesa, in questo tempo, ci invita a risvegliare il nostro cuore credente.
Le tentazioni....